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 2004  agosto 24 Martedì calendario

DelliColli Tonino

• Nato a Roma il 20 novembre 1923, morto a Roma il 17 agosto 2005. Direttore della fotografia. «[...] il direttore della fotografia del cinema italiano, colui senza il quale non iniziavano un film né Pasolini né Leone, l’occhio con cui abbiamo visto i film più popolari del dopoguerra. Sei Nastri, 4 David. Da quando aveva 16 anni al ’97, allorché diede l’addio con La vita è bella, ha inquadrato oltre 100 film, da Ercole ad Accattone, prima in bianco e nero e poi a colori. Fu il primo ad usare la pellicola Ferraniacolor nel ’52 per Totò a colori e ricordava che il parco lampade così nutrito che la parrucca di Totò prese fuoco. Uomo piccolo di statura ma grande nel lavoro, autodidatta e modesto, amante del cinema e delle donne, come oggi ricorda Risi ”e non si metteva mai in posa”. Con Pasolini fu un sodalizio totale, ci lavorò 14 anni dandogli sempre del lei, discutendo dei maestri pittorici (Mantegna per Mamma Roma) edi cinema (Dreyer e Chaplin), collaborando alla nascita di un modo diverso di riprendere la realtà, sovraesponendo, sgranando l’immagine, facendo diventare le borgate romane quasi irreali. [...] lo ricordano come un maestro, ma lui preferiva l’aspetto artigianale di un lavoro che lo portò in giro per il mondo. Iniziò nel ’43 a Cinecittà (Finalmente sì! di Kish) con film minori, lavorando col cugino Franco e legandosi a Bonnard, Monicelli, Soldati, Steno, Mattoli e Matarazzo, inquadrando le smorfie di Walter Chiari e le lacrime di Yvonne Sanson. Poi, col neorealismo, disse che tutto era diventato più vero e più facile, gli venne spontaneo riprendere i poveri ma belli e fu l’uomo di fiducia di Risi e Monicelli. Non illuminava solo la scena, ma anche la psicologia dei protagonisti. E di tutti sapeva tutto. Raccontava della Magnani che con Pasolini voleva la parrucca e lui la toglieva. Di Steve Reeves diceva che si gonfiava i muscoli uno per uno prima del ciak. Di Leone - con cui aveva girato tre film fino allo spleen luminoso di C’era una volta in America - riferiva: ”Era uno stakanovista e perfezionista che voleva i primi piani anche dei peli della barba”. Gli si chiedeva l’impossibile a Tonino, e lui pronto con i miracoli di luce: fu l’occhio complice di molti panorami sociali diversi, degli interni di Lattuada e Zurlini, lavorò con Bellocchio, Ferreri e Comencini e ogni volta che cambiava il paesaggio, cambiava anche lo stile, la luce: ”Bisogna conoscere bene il sole e il mare, i colori e i contrasti, noi italiani siamo maestri”. E Fellini? Gli fu accanto negli ultimi tre film con le luminosità morbide di Ginger e Fred, i notturni velati della Voce della luna, mentre in Intervista apparve nel ruolo di se stesso. Le produzioni kolossal come Il nome della Rosa chiamavano lui, ed anche gli stranieri lo scelsero spesso, a cominciare dal Cagliostro Orson Welles (’girai con lui mezzo Otello poi dovetti andare a sposarmi”) fino a Malle e Polanski. Dopo l’anno di Marianna Ucria di Faenza e del film Oscar di Benigni decise di lasciare: il cuore faceva i capricci. [...]» (Maurizio Porro, ”Corriere della Sera” 18/8/2005). «[...] Genio di quella specialità del cinema che in America chiamano ”cinematographer” e noi ”direttore della fotografia”, in quasi sessant’anni di lavoro si è accompagnato a quattro o cinque generazioni di registi italiani - dai Gentilomo, Bonnard, Mattoli, Bragaglia fino a Benigni, passando per Risi, Steno, Monicelli, e poi Ferreri, Bellocchio, Faenza - oltre che ad alcuni grandi stranieri, da Louis Malle (Cognome e nome: Lacombe Lucien) a Polanski (Luna di fiele, La morte e la fanciulla). Ma tre sono stati gli incontri chiave: Pasolini, Leone, e Fellini. Alla pari di tanti colleghi (e il cinema italiano ha dato grandi nomi a questa specialità) il ragazzo romano Tonino Delli Colli, così come poi suo fratello minore Franco (scomparso un anno prima di lui), entra nel cinema dalla bottega dell’apprendistato, di un’umile quanto appassionata manualità artigianale che diventerà arte senza mai definirsi tale, senza sovrastrutture intellettuali: ”Non ho mai frequentato una scuola di cinema”. Nella neofondata Cinecittà (1937) l’adolescente Tonino già inizia la sua gavetta, suo primo maestro è l’operatore Mario Albertelli cui seguono Ubaldo Arata e Anchise Brizzi. E appena ventenne, durante la guerra, comincia a ”firmare” film, dimenticati, che s’intitolano Finalmente sì o Trepidazione. ”Ho fatto”, dirà molti anni dopo, ”talmente tanti film che non posso ricordarli tutti”. Delli Colli matura nel pieno della stagione neorealista che, dal suo punto di vista, significa fare i salti mortali nel lavorare solo con luci naturali. Resterà per sempre affettivamente legato alla bellezza magica di quello spoglio bianco e nero anche se tocca a lui, nel ’52, fotografare il primo film italiano a colori (Ferrania), Totò a colori del regista Steno di cui qualche anno dopo fotograferà anche un altro piccolo grande capolavoro della commedia, Piccola posta. Genere che Tonino continua a praticare negli anni 50 soprattutto con Dino Risi: ”sua” è la Roma ingenua e indimenticabile di Poveri ma belli. Con l’inizio degli anni 60 ecco Pasolini e poco dopo Sergio Leone, incontri nati in modo opposto. Del primo Delli Colli sente dire da qualcuno che sta per debuttare come regista, e si candida lui per la fotografia di Accattone (fotograferà 11 dei 14 film del poeta, ”ma solo perché altri impegni mi hanno impedito di farli tutti”) anche a costo di essere sottopagato. PPP non sa niente di tecnica ”ma quello che ha in mente è molto chiaro”, ciascuno ha da imparare dall’altro, si genera una speciale simbiosi. Delle prime, un po’ deliranti, intenzioni di Leone di rigenerare il western in salsa spaghetti Tonino è testimone diretto (’una sera mi portò a vedere Yojimbo di Kurosawa”) ma inizialmente è riluttante ”a lavorare per niente”. La collaborazione comincia con Il buono, il brutto e il cattivo, e proseguirà fino al monumentale C’era una volta in America. Gustose le sue dichiarazioni sull’impazzimento che le manie del regista imponevano: ”ho fatto tutto il possibile per accontentarlo nei limiti del possibile”. Infine Delli Colli è compagno di strada dell’ultimo Fellini - Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna - di cui bonariamente sopportava e assecondava i cambiamenti dell’ultimo minuto. Tre momenti, una stessa inclinazione umana e di filosofia professionale. Che a ben vedere (e in linea con lo spirito altrettanto sornione di un suo caro amico, Mastroianni) fanno tutt’uno e delineano la sua personalità. Quella di un artista per il quale la cultura è stata una conquista e mai l’ha sostituita a un istinto naturale; che pur sempre adattandosi al regista di turno ha impresso al proprio lavoro uno stile personale. ”Non ho mai usato formule preconcette. Ho sempre lavorato con il materiale umano e tecnico disponibile, e con l’immaginazione e l’intuito del momento”. Quattro volte David di Donatello: Storie di ordinaria follia, Il nome della rosa, Marianna Ucrìa, e La vita è bella. E sei Nastro d’argento: Il vangelo secondo Matteo, La Cina è vicina, Storie di ordinaria follia, C’era una volta in America, Il nome della rosa, e Marianna Ucrìa. [...] è stato insignito del massimo riconoscimento attribuito dall’associazione dei ”cinematoghapher” americani. [...]» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 18/8/2005). «’Se Tonino fosse alto quanto grande è il suo lavoro toccherebbe il cielo con un dito”, dice Peppino Rotunno, collega e amico di Tonino Delli Colli. ”[...] Tonino era davvero grande, la sua qualità era l’istinto enorme che gli faceva intuire sempre le intenzioni della regia. Lui - come faccio io - tampinava il regista senza mollarlo mai, gli stavamo addosso da quando faceva i provini agli attori a quando sceglieva gli ambienti. Grazie al grande istinto poteva lavorare con Pasolini o con un autore francese, con Leone o con Fellini, registi diversissimi. Tonino riusciva ad entrare nel mondo di ciascuno di loro, a carpire la sua visione del cinema e della storia e, se non ci riusciva, era in grado di insegnare molte cose”. [...] Ricorda ”i primi incontri a Cinecittà, io ero entrato come fotografo con i fratelli Bragaglia, lui faceva già l’aiuto. Poi abbiamo fatto insieme un film di Claudio Gora, lui direttore della fotografia, io aiuto. Le strade si sono divise, ma non ci siamo persi di vista e quando ci vedevamo evitavamo di parlare di lavoro, ci piaceva goderci la reciproca compagnia. Amavo il suo humour brusco, era spiritoso anche quando brontolava. Tonino era un borbottone, non gli andava mai bene niente, si impicciava di tutto su un set. Ma è giusto così perché se qualcosa non funziona comporta perdite di tempo per le riprese, un tempo prezioso che non si recupera”. Secondo Rotunno il cinema in cui più emerge uno stile Delli Colli è forse quello di Pasolini: ”Ma non c’è un segreto, a volte neanche noi ci spieghiamo certi risultati. Se c’è un segreto è l’amore per quello che stai facendo, capire perché lo fai e non la ricerca dell’effetto fotografico fine a se stesso. Insieme all’intuito, Tonino aveva tutte le qualità necessarie al nostro lavoro, comprese la semplicità e l’umiltà. Che è fondamentale in un lavoro collettivo come il nostro: siamo tutti al servizio della sceneggiatura e Tonino non lo dimenticava mai”» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 18/8/2005). «[...] Dopo una densa carriera (il primo film, nel 1948, è L’isola di Montecristo di M. Sequi), nel 1961 inaugura con Accattone una assidua collaborazione con Pier Paolo Pasolini che conclude, dopo undici film, nel 1975 con Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il suo sicuro talento fotografico, spesso incline a sottolineature poetiche e a ricercate soluzioni luminose, lo avvicina anche ad altri autori: è, tra gli altri, con Louis Malle per Cognome e nome: Lacombe Lucien (1974) e Sergio Leone per C’era una volta in America (1984). Altre assidue collaborazioni con Marco Ferreri e Federico Fellini, che lo vuole con sé nel 1985 per Ginger e Fred e per i suoi due ultimi film (Intervista, 1987 e La voce della luna, 1990). Protagonista di più di cent’anni di cinema italiano, cura anche la fotografia di Luna di fiele (1992) e La morte e la fanciulla (1994) di Roman Polanski, oltre che quella del pluripremiato La vita è bella (1998) di Roberto Benigni» (Cinema, a cura di Gianni Canova, Garzanti 2002).