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 2004  agosto 24 Martedì calendario

Cutuli MariaGrazia

• Nata a Catania il 26 ottobre 1962, morta su una strada tra Jalalabad e Kabul (Afghanistan) il 19 novembre 2001. Giornalista. «Al ritorno dal Ruanda, dove aveva lavorato per l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, Maria Grazia Cutuli aveva iniziato un diario. Voleva fermare le sue impressioni su quell’area tormentata da decenni di guerra civile e genocidi. E, come in ogni diario, narrare di sé. In quelle pagine - è curioso - si descriveva fisicamente alta e bionda. Diversa da com’era in realtà: di media statura e castana, virata in biondo. Corrispondevano solo gli occhi chiari. Forse non aveva ancora completato la sua trasformazione. Il passaggio da crisalide in farfalla. Maria Grazia Cutuli, la giornalista del ”Corriere della Sera” assassinata insieme ai tre colleghi dell’agenzia Reuters e del quotidiano ”El Mundo” [...] sulla strada tra Jalalabad e Kabul, lo era diventata, una farfalla. Ma doveva liberarsi degli ultimi frammenti d’un vecchio involucro. Perché Maria Grazia si voleva lievemente diversa da com’era? [...] La sua è, alla fine, la storia di una ragazza italiana come tante. Una ragazza di Catania, senza figli né famiglia, e la redazione come casa. Una ragazza morta a 39 anni, che volle molto e parecchio ottenne, fino a imbattersi nel tiro di dadi sbagliato in un feroce angolo di mondo. Quel mondo di conflitti, fanatismi, crudeltà tribali che l’affascinava tanto. Maria Grazia Cutuli era una donna attraente e determinata. Con un ardore mediterraneo, eppure scissa, fin dal suo arrivo a Milano, tra ciò che era e ciò che voleva diventare. Per la nuova città provava insofferenza, la definiva ”asettica e deprivante”, racconta un’amica. E però ammirava fisicamente le giovani milanesi, toniche, sveglie, fitness e gambe in spalla. Lei, che non aveva mai fatto sport, si diede alla palestra. Si appassionò alle diete e agli integratori alimentari. Giunta in città a 26 anni, esuberante in stivaletti e giubbotto con le borchie, ricordano alla Mondadori, s’era trovata tra pallide colleghe minimaliste in panni neri, tutte fashion, magrezza e occhiaie: e un po’ ci scherzò, e molto le studiò per risponder da par suo. Alla fine vestiva da Prada e da Biffi, costosa boutique di corso Genova, e pure in quello ce l’aveva fatta. Milano non era uno scherzo, intorno al 1990. La trasformazione in capitale del terziario avanzato, il glamour della moda, dei media, della finanza. La degenerazione in fieri del blocco politico della Prima Repubblica. Gli arricchimenti, il craxismo, le volgarità. Una sfida, per una siciliana figlia di due insegnanti medi, che poco aveva viaggiato. Eppure, guardiamo le porte a cui bussò, con la sua laurea in filosofia e le prime esperienze isolane a ”La Sicilia” e a Telecolor. Prima, due tra i migliori periodici Mondadori, ”Centocose” e ”Epoca”, dove prese confidenza con le aree di crisi, il Medio Oriente, Israele, l’Africa nera. Poi il corso di peacekeeping all’Onu, il volontariato in Ruanda. L’approfittare delle ferie per proporre servizi da paesi difficili, la Bosnia, la Cambogia, pur di farsi notare. Nell’estate 1997 il contratto a termine alla redazione Esteri del ”Corriere della Sera’, che si trasformerà in assunzione nel ’99, a 37 anni. Vocazione precoce, chiamata tardiva. Tenacia. Ottimismo. Martellamenti. La giovane Cutuli si fece largo in un ambito, il reportage di guerra, che si diceva di maschi. ”Un carattere impaziente”, ricorda turbata l’amica Daniela Hamaui [...] ”mosso da passioni forti. Nel lavoro come nei sentimenti. Aspirava a un uomo che le esprimesse una dedizione totale, con cui condividere tutto, compresa la professione. Ma è difficile trovare, tra i reporter di guerra, caratteri spesso difficili, narcisisti, l’uomo capace di dare quello che lei chiedeva”. Lo stesso spagnolo Julio Fuentes, ucciso con lei nell’agguato del 19 novembre, era stato un amore durato circa un anno, poi tramutato in amicizia. Gli ultimi anni il lavoro era diventata un’attività divorante, che poco lasciava al privato. Maria Grazia giudicava il tempo del riposo come tempo sprecato. ”Ricordo un agosto a Filicudi”, racconta Hamaui: ”Maria Grazia era lì da tre giorni e già fremeva. Qui è tempo buttato, diceva: se andassi in Bosnia? Era così. Eppure non era una donna che per bruciare le tappe fosse mai scesa a compromessi”. Lo conferma Alberto Negri, inviato del ”Sole-24 Ore” [...] ”L’arrampicata sociale”, racconta, ”non si addice alla sua storia. No, Maria Grazia con gli anni era più matura e consapevole di sé. Tormentata, sì, ma senza nulla di mascolino. Anzi era una donna anche vulnerabile, esprimeva un bisogno di protezione. Amava profondamente l’Africa e il Medio Oriente, aveva una curiosità infinita. E la dimensione del viaggio, dall’altrove era quella che le dava la serenità”. Maria Grazia amava un libro, La Peste di Camus. L’appassionavano i reporter delle crisi del Terzo Mondo, Ryszard Kapuscinski, Tiziano Terzani. A Ettore Mo, decano dei corrispondenti di guerra italiani, chiese la dedica sull’ultimo libro, come una lettrice in libreria. E però, dicono amici milanesi, non era una donna esente da paure: per esempio la paura di star sola (e sola era stata spesso in questi anni). Valutava le persone in termini di forza e debolezza. Di vincenti e perdenti (’vincente” era un termine che usava spesso). Rispettava i forti, e li temeva. Voleva essere qualcuno nella professione, evadere dalla palude redazionale. Chiamava ”peones” i collaboratori, con il cinismo ruvido dei giornalisti maschi. E intanto s’infatuava dei no-global, i peones del neocapitalismo. Era permalosa, dicono. Tendeva a mettersi al centro dell’attenzione. A sorpresa infliggeva agli amici, nel mezzo di una cena, uno speciale tv sul Burundi, dicendo: ”Scusatemi, devo seguirlo”. Non staccava mai. Ed era dispersiva, come tante trentenni, che per far cento accumulano mille e buttano il resto. E però: che tenacia. Sbarcata a Milano masticava un inglese men che modesto, come tanti ragazzi di oggi. Una sera raccontò ad amici come in una città del Maghreb l’avessero infastidita per strada, c’era un tizio molesto che insisteva e insisteva. Poi si capì perché. ”Go on”, continua, gli diceva lei, anziché ”Go away”, vattene. E rideva delle sue goffaggini; ma poi chinò la testa e migliorò. [...] seguì per il ”Corriere” la tragedia del Kursk, la nuova Intifada, i bambini schiavi nel Benin, la distruzione dei Buddha di Bamiyan. E due duri mesi di Pakistan, fino al viaggio fatale. Di se stessa, in un’intervista rilasciata da Peshawar al femminile ”Gioia” [...] ha sottolineato ”il narcisismo e l’idea del riscatto, il desiderio di uscire dal ruolo femminile, la voglia di dimostrare agli uomini di cosa siamo capaci noi donne”. Aveva fatto propria, racconta una collega, una frase detta dall’anziana madre di un desaparecido argentino: ”Agli uomini non bisogna far caso”. Aveva questa strafottenza. Ma anche un calore, un entusiasmo, il talento di infondere coraggio. Degli uomini aveva catturato il rispetto. [...]»". Enrico Arosio, ”L’Espresso” 29/11/2001).