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 2004  agosto 20 Venerdì calendario

GALIAZZO

GALIAZZO Marco Padova 7 maggio 1983. Arciere. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene (2004). «Per la serie ”miracoli italiani”: un arciere miope centra la medaglia d’oro. L´album dei campioni bisestili, atleti spaiati che collezioniamo ogni quattro anni, si arricchisce di una nuova fotografia: un ragazzo di ventun anni robusto e rosato, che porta gli occhiali in gara perché gli manca una diottria, ma se li toglie dopo, solo per abbassare gli occhi pieni di timidezza più che di gioia. [...] appassionato di automobiline, è una faccia che dimenticheremo domani e non riconosceremo mai tra la folla di un sabato pomeriggio al caffè Pedrocchi perché in quel momento sarà ad allenarsi in campagna, divertendosi di più con le sue frecce. [...] uno sport dove non contano gli arbitri, il risultato è visibilmente incontestabile, le regole semplici, chiare e spietate come fossimo ancora in cortile (tiri tu, tiro io, chi ci prende di più vince). Ha battuto uno dopo l’altro tutti i rivali compreso il suo ”padre spirituale” Di Buò che tirava alle Olimpiadi di Los Angeles quando lui era appena nato. In finale ha incontrato il giapponese Yamamoto che in quei Giochi vinceva una medaglia e ha il doppio dei suoi anni. All’ultimo tiro, quando la freccia dovrebbe pesare 300 chili e non 300 grammi, ha colpito un centro perfetto: lì, nel cuore dell’improbabile, a sovvertire il teorema per cui ”i bravi ragazzi finiscono secondi”. [...]» (Gabriele Romagnoli, ”la Repubblica” 20/8/2004). «Il diploma di commendatore l’hanno appeso all´angolo del muro, in salotto, ma è un po’ coperto dalla tenda. ”Non c’era più un buco libero, non sapevamo dove metterlo” dice la mamma. Invece il papà solleva un coso che sta sul tavolo, ed è il trofeo di un campionato europeo indoor in Belgio: ”Pesa 15 kg, è perfetto per fermare la porta”. Alle spalle di Marco Galiazzo, che immobile osserva i gesti dei genitori alzando appena le spalle e socchiudendo gli occhi, c’è una vecchia freccia in equilibrio sul bordo di una cornice. Un bigliettino, attaccato, porta scritto ”Rovigo 1996”. ” la freccia della prima gara di Marco”, dice il padre che si chiama Adriano, ripara fotocopiatrici e non guarda il figlio, lo contempla. Invece la madre Antonella, infermiera, contempla il marito e via di seguito, è tutto un rimbalzare di occhi. Il campione olimpico sta seduto di fianco al poster della premiazione di Atene, con la corona d’alloro, la medaglia al collo, il sorriso remotissimo. ”Ero ancora calato dentro la cupola di vetro”. E la medaglia, adesso dov’è? ”L’abbiamo messa via, è da un’altra parte” risponde come alludendo a un innominabile segreto. ”Non è per il valore, si tratta di argento in bagno d’oro, è per quello che simboleggia: se stava in casa ce la chiedevano tutti, anche solo per guardarla” interviene il padre. ”Insomma, l’abbiamo messa in cassetta” taglia corto la madre. La medaglia chiusa in banca. ”Tanto l’avevo già consumata con gli occhi, ad Atene la tenevo sempre nel marsupio”. Non hai pensato, Marco, di farne una copia? Così, se ti viene voglia di toccarla, ce l’hai. ”La medaglia si può anche replicare, il laccetto colorato no, e allora è inutile”. Il paese si chiama Rio di Ponte San Nicolò, appena fuori Padova. La strada piattissima s’incurva tra le case, a ridosso della tangenziale. Il silenzio è inquieto e sembra richiamare qualcosa che non c’è. Per entrare in casa si fa una rampa di scale. Il salotto ha i copridivani e le coppe, le foto, le targhe, gli accrediti delle gare appese dove capita, un vaso di cristallo pieno di frecce. [...] Non è diventato ricco, non l’hanno chiamato sull’Isola dei famosi, ”e comunque non ci sarei andato”. [...] Cosa si pensa con quel bersaglio davanti? ”Che c’è silenzio e che mi piace, come la montagna, al mare invece no perché fa troppo caldo. Non penso mai a colpire, penso a tirare. Se rifletti sul centro del bersaglio, hai già perduto [...] Ho la passione delle automobili radiocomandate, quelle minuscole. A volte facciamo a gara tra noi arcieri, per rilassarci prima di andare al tiro [...] Se fossi americano o coreano sarei professionista, avrei soldi e sponsor. Qui, invece, la mia speranza è di entrare nei Carabinieri, nell’Esercito o nell’Aeronautica e poter avere uno stipendio per continuare a tirare con l’arco”. [...] Della gara contro il giapponese che poteva essere suo padre, e che aveva una foto del figlio montata dentro il binocolo, ricorda solo i dettagli. ”Lui era un avversario come un altro. Ho negli occhi l’immagine dei fotografi che mitragliano di scatti mentre sto per tirare, facendo un grande casino”. Nulla che sia passato dentro la cupola di vetro. ”Non devi pensare a niente di concreto, non devi neanche pensare che non devi pensare”. A cosa, allora? E come? ”Pensare che è solo una gara come tante, con i soliti avversari. Alla fine non è stato neanche difficile”. Perché lui la gara ce l’aveva già dentro, insieme a tutto il resto. ” un istinto, non saprei raccontarlo. Sono sempre stato bravo dove c’è da mirare, anche al luna-park col fucile. A tredici anni mi sono costruito un archetto di legno, poi gli zii me ne hanno regalato uno vero e ho cominciato a imparare, così ho vinto subito la prima gara” [...]» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 16/12/2004).