Varie, 17 agosto 2004
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Giussani Luigi
• Desio (Milano) 15 ottobre 1922, Milano 22 febbraio 2005. Teologo. Ha studiato ed è stato docente alla Facoltà teologica di Venegono. Nel ”54 lascia il seminario per insegnare al liceo Berchet di Milano: nasce così «Gioventù Studentesca», dal ”69 «Comunione e Liberazione». Dal ”64 al ”90, insegna introduzione alla Teologia alla Cattolica. L’11 febbraio ”82 la «Fraternità di Comunione e Liberazione» è dichiarata «Associazione di diritto pontificio». Oggi Cl è presente in settanta Paesi. Tra le sue opere trilogia del PerCorso (Rizzoli) e Una presenza che cambia. Per la Bur dirige la collana I libri dello spirito cristiano. «Fondatore e guida di Comunione e liberazione, teologo e intellettuale tra i più importanti di fine secolo. [...]» (Alessandro Sallusti, ”Panorama” 24/8/2000). «[…] Per tutta l’esistenza ”don Gius”, come veniva chiamato dagli aficionados, è stato un seduttore. ”O ne eri attratto o lo respingevi”, ricordano i suoi ex alunni al Berchet di Milano. Negli incontri settimanali di Gioventù studentesca si faceva una specie di autocoscienza cristiana. Per forgiare lo spirito di corpo (e il settarismo, insinueranno i critici). L’ondata del ”68 cambia tutto. ”Perdemmo - ha confessato il ciellino Roby Ronza - i due terzi dei nostri militanti, che aderirono quasi tutti al Movimento studentesco, a Lotta continua, ad Avanguardia operaia”. Ma il gusto della lotta don Gius non lo perde. Nel 1969 è di nuovo sulla breccia con Comunione e liberazione. Nelle università in cui imperano Marx e Reich i ciellini contrappongono il vessillo del ”fatto cristiano”. E intanto si organizzano. Nasce il Movimento politico, la Compagnia delle Opere, l’editrice Jaca Book, il settimanale Il Sabato e il Meeting di Rimini. Sorgono filiali cielline in settanta paesi del mondo. Sarà anche la stagione di scontri durissimi con i laici e la sinistra su divorzio e aborto. Ma è soprattutto all’interno del cattolicesimo che presto si aprono aspri conflitti con quei vescovi come Martini che mal sopportano l’integrismo del movimento. Esplode la contrapposizione tra un cattolicesimo della laicità e della mediazione come quello di Giuseppe Lazzati - uno dei padri costituenti e rettore della Cattolica - e il cattolicesimo ciellino orientato alla riconquista della società secolarizzata. L’Azione cattolica è accusata implacabilmente dai ciellini di favorire un cristianesimo rinunciatario. ”Cristiani con la clava”, li definisce Domenico Rosati, presidente delle Acli. Con Giovanni Paolo II che arriva la prova del fuoco. Don Giussani e i suoi, che avevano già seguito e sostenuto Wojtyla quando era arcivescovo di Cracovia, si presentano subito come pretoriani di ferro del pontificato polacco. Lo appoggiano specialmente nell’idea di una Chiesa fortemente attiva in politica e in campo sociale nonché impegnata concretamente - fino a quando sarà possibile - a puntellare l’unità dei cattolici intorno alla Democrazia cristiana. Il convegno ecclesiale di Loreto del 1985 sarà il campo di battaglia tra le opposte schiere. La maggioranza dei vescovi, a partire dal carmelitano cardinale Ballestrero, presidente della Cei, è favorevole alla linea della ”scelta religiosa”, cioè la prospettiva di una evangelizzazione sganciata da compromissioni partitiche nel segno dell’immagine evangelica di un cristianesimo ”lievito” nella società. un’idea cara all’intellighenzia che proviene dall’Azione cattolica. Non così la pensa Karol Wojtyla, sostenuto a spada tratta da Comunione e liberazione e dall’Opus Dei. Il Papa vuole una Chiesa combattente contro laicismo, pluralismo e sinistra. Vince, naturalmente, il pontefice e sarà anche l’inizio dell’ascesa di un giovane vescovo emiliano, Camillo Ruini. Verranno, con la fine del secolo, anni più quieti. I movimenti cattolici imparano a convivere. Ognuno diffonde la sua novella. Giussani denuncia l’Occidente ”de-cristianizzato” e l’Italia senza Dio, descrive un’umanità abbandonata ad angosce e solitudini senza l’appiglio alla croce, predica che il cristianesimo non è cultura ma vita, ”perché Cristo ha cominciato a balzare nell’utero di una donna!”. La storia, proclama, è marchiata da un evento imprevedibile ”che si chiama Gesù Cristo”. Evento destinato a prolungarsi nei secoli come Chiesa: comunità di popolo che sfida le società di tutti i tempi. I critici continueranno a rimproverargli una sorta di populismo religioso. Ma ormai è arrivata la stagione della riappacificazione fra cattolici. Giovanni Paolo II può salutare con affetto il suo combattente, lodandolo perché Cl si distingue nel ”riproporre in modo affascinante e in sintonia con la cultura contemporanea l’avvenimento cristiano”. Don Gius l’avrà sentito come l’epitaffio più bello» (Marco Politi, ”la Repubblica” 23/2/2005). « stato un prete scomodo, scomodissimo; di quelli di cui per sua fortuna la Chiesa è sempre ricca e a cui, comunque, per essere sicura che non si montino la testa, dà in genere un sacco di botte. Don Luigi Giussani nasce nel 1922 a Desio, un paese nei dintorni di Milano, da Angela, cattolica, e Beniamino, intagliatore in legno anarco-socialista, appassionato di musica. Nei ricordi del ”don Giuss” convivevano certe domeniche pomeriggio, in cui il papà invitava dei musicisti amici a suonare, in casa, e il percorso per raggiungere la chiesa nella penombra dell’alba; il silenzio rotto dall’improvvisa esclamazione di sua madre, alla vista di Venere che scompariva nella luminosità crescente: ”Com’è bello il mondo e com’è grande Dio!”. E ricordava, don Giussani, le visite del padre al salotto di Piazza Duomo di Filippo Turati; e quelle di Anna Kuliscioff, a Desio per vedere la figlia, Andreina. Giussani entra giovanissimo nel seminario diocesano di Milano, e poi completa i suoi studi alla facoltà Teologica di Venegono; dopo l’ordinazione, incomincia a insegnare a Venegono. A metà degli Anni ”50 decide di andare a insegnare nelle scuole medie superiori. Per 10 anni, dal 1954 al 1964, è al Berchet di Milano. L’avventura che porterà alla nascita di Comunione e Liberazione, e a una ”carriera” ricca di battaglie (e non solo verbali, per i suoi discepoli) parte da qui. Insieme con i primi guai. Don Giussani, infatti, in un periodo in cui la divisione fra maschietti e femminucce è ancora in vigore, nelle associazioni di laici, riunisce insieme ragazzi e ragazze; la Curia lo manda a chiamare per una spiegazione. E si convince. Ma il cattolicesimo del ”Giuss” è scomodo, per quei tempi; lo è per la società, ma anche un po’ per la Chiesa. Così il sacerdote di Desio fa un lungo viaggio negli Stati Uniti per studiare i protestanti di laggiù. Se però la speranza era quella che tornasse cambiato, niente da fare. Anzi. Intanto sta germogliando il ”68, e Comunione e Liberazione guidata da don Giussani entra in quelle acque tempestose. Ma c’è anche la ”battaglia” con l’Azione Cattolica; e certamente la maggioranza dei vescovi, se vive con grande preoccupazione la crisi di Ac, guarda con malcelato sospetto ai ciellini. E’ l’epoca del referendum sul divorzio, e i vertici di Azione Cattolica hanno con il segretario della Cei, Bartoletti, ”lunghi e snervanti colloqui perché avessero un atteggiamento di obbedienza nei confronti delle decisioni del Magistero”. il momento della rivincita, dopo anni di ostilità. A Pasqua del 1975 si temeva una piazza San Pietro vuota, e monsignor Benelli parla con don Giussani. Nella notte 18 mila ciellini arrivano in pullman da tutta Italia. Don Giussani è fra i concelebranti, e alla fine della messa può gustare la gratitudine pontificia: questa è la strada, vada avanti così. Coraggio, coraggio, lei e i suoi giovani, perché questa è la ”strada buona”. Fu una svolta, destinata a concretizzarsi in un discorso pubblico a Firenze, il primo e unico rivolto al Movimento, pochi mesi prima che Paolo VI morisse. ”Siamo molto attenti all’affermazione che andate diffondendo del vostro programma, del vostro stile di vita, dell’adesione giovanile e nuova, rinnovata e rinnovatrice, agli ideali cristiani e sociali che vi dà l’ambiente cattolico in Italia”. Una strada segnata anche dalla ricerca di unione fra ciò che è bello e ciò che è sacro: talvolta la meditazione dopo l’eucarestia era accompagnata dalla lettura di Leopardi. ”Io non ho fatto nulla, sono uno zero”, dirà in una delle ultime interviste don Giussani. ”Tutto lo fa l’Infinito e noi altri non faremmo nulla se non ci si fosse dato”. Il che è ingannevole; perché nasconde la quantità di lavoro compiuta da uno ”zero” affinché l’Infinito se ne prendesse il merito. ”Tutto per me si è sviluppato nella più assoluta normalità e solo le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore”. E di cose ne accadevano tante: i riconoscimenti ufficiali, con l’arrivo di Giovanni Paolo II al soglio di Pietro, lo sviluppo, anche economico e politico, oltre che editoriale, di Comunione e Liberazione nelle sue diverse forme, l’espansione in vari Paesi del mondo... Ma sempre il ”don Giuss” ha evitato di assumere un ruolo di primo piano sulla scena; ha limitato le uscite pubbliche al minimo indispensabile. ”Scelta spontanea di un animo teso al vero, pur essendo ben cosciente dei suoi limiti”, spiegava. Mentre chi gli è stato vicino parla dell’uomo Giussani così: ”Aveva una specie di spontanea selvatichezza (anche nel contatto fisico, ricco di pacche, strette, spintoni) eccezionalmente vitale e arcaica, in un ambiente in cui le nevrosi della ipercivilizzazione si tagliavano già con il coltello” (Claudio Risé,Felicità è donarsi). Un prete politicamente scorretto […]» (’La Stampa” 23/2/2005). «Madre operaia, padre socialista, per don Giussani la fede come ”avvenimento” e la necessità di ”sperimentarla”, di farsene una ragione: ”Per capire se un vino è buono, l’unica è provarlo”. Entusiasmava i giovani e inquietava le gerarchie cattoliche. ”Cara beltà che amore / lunge m’inspiri...”. Il ”Gius” aveva quindici anni, faceva la prima liceo al seminario di Venegono, nel varesotto, e per la verità Leopardi lo sapeva a memoria da tempo. Ma quella volta rilesse Alla sua donna come una preghiera che avrebbe ripetuto quando faceva la comunione, ”essendo espressione del genio, questi versi non possono essere che profezia”, in questo caso ”la profezia di quello che il Signore aveva già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi e di toccare con le mani la Bellezza fatta carne, il Verbo”. Forse ancora non sapeva che Dostoevskij aveva scritto: ”La bellezza salverà il mondo”, ma in fondo è la stessa certezza che lo ha accompagnato per tutta la vita a contrastare il timore di un ”disastro” imminente per la Chiesa e l’idea d’un cristianesimo astratto ridotto all’insignificanza. […] l’essenziale glielo avevano spiegato i genitori. C’era la fede di mamma Angelina che fino al matrimonio aveva fatto l’operaia tessile, ”mi raccontava le parabole del Vangelo e io capivo che si trattava di cose avvenute”, la fede rocciosa dei brianzoli. E c’era il carattere di papà Beniamino, socialista con tendenze anarchiche e intagliatore di legno, appassionato di arte e musica (se il piccolo Luigi la faceva grossa, gli cantava dalla Traviata: ”Tu non sai quanto soffrì/ il tuo vecchio genitor!”) che non si stancava di ripetergli: ”Datti ragione di tutto”. Così per don Giussani esisteva la fede come ”avvenimento” e la necessità di ”sperimentarla”, di farsene una ragione: ”Per capire se un vino è buono, l’unica è provarlo”. Tutto era cominciato da un viaggio in treno verso Rimini, dall’incontro con un gruppo di ragazzi ”che non sapevano nulla del cristianesimo”. Gli venne in mente una domanda di T. S. Eliot che avrebbe ripetuto infinite volte: ” l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?”. Pochi mesi più tardi, nell’ottobre del ”54, quel prete trentenne aveva ottenuto di lasciare l’insegnamento in seminario e saliva i gradini del liceo Berchet, tra i rampolli della buona borghesia laica di Milano. Dopo la prima lezione in I E, circondato dagli studenti, il ”Gius” stava già discutendo in corridoio con il professore di filosofia che sosteneva l’assoluta distinzione tra ragione e fede: ”Io le dico che l’America c’è, a prescindere dal fatto che l’abbia vista, secondo lei è razionale affermare questo oppure no?”. Tornava a casa arrabbiato ”perché i comunisti si radunavano sempre, i fascisti si radunavano sempre e dei cattolici non c’era traccia”. Non era il tipo da cedere: ”Quando insegnavo in prima liceo, per dimostrare l’esistenza di Dio andavo da casa mia al Berchet con in braccio un giradischi, allora c’erano quelli grossi col trombone, mi trascinavo questo grammofono e facevo sentire Chopin, Beethoven...”. Perché ”nell’inizio c’è già tutto” e in quell’inizio si capisce come sia stato possibile che i ”quattro scugnizzi” che lo seguirono nella prima sede di via Statuto 2 siano confluiti nella ”nuova” Gioventù Studentesca (che era già stata fondata da Giancarlo Brasca, nel ”45) e dal ”69 in Comunione e liberazione, fino a moltiplicare il movimento in 70 Paesi sparsi nel mondo. L’intuizione decisiva era semplice: bisognava uscire dalle parrocchie e ricominciare il lavoro educativo dalle scuole, così quel prete dalla faccia asimmetrica e l’eterno basco in testa incrociava i ragazzi e chiedeva: ”Ma il cristianesimo è presente, qui?”. Quelli si mettevano a ridere o, basiti, rispondevano ”no”. E lui: ”Allora, o la fede in Cristo non è vera, oppure richiede una modalità nuova”. Non era questione di organizzazione ma di metodo, ”ci seguiva uno a uno, ci invitava a parlare con lui, ci veniva a prendere a casa coinvolgendo anche i nostri genitori, dava sempre a ciascuno qualcosa da fare”, ha ricordato una ragazza di allora, Anna Ferrari. Giussani insiste: vivere seguendo Cristo è vivere meglio, è come vivere cento volte tanto. Da Il senso religioso del ”57 i suoi libri si contano a decine e sono tradotti in buona parte del mondo. Il suo pensiero non è affatto semplice ma trascina. Se Cristo è ”il criterio esplicativo del reale” tutto ne risulta coinvolto, dice, ci si deve aprire a tutta la realtà: la propria esperienza, l’incontro con gli altri, le lezioni e le conferenze scandite, l’arte, la letteratura, il teatro, la musica, le gite, la preghiera. E i gruppi crescono, i ragazzi del ”Gius” si moltiplicano combattivi nelle scuole e nelle università. Don Giussani avrebbe insegnato al Berchet per dieci anni, dal 1964 al 1990 terrà la cattedra di Introduzione alla Teologia all’università Cattolica. Sono gli anni del grande gelo con il rettore Giuseppe Lazzati e l’Azione Cattolica. Entrano in gioco due diverse idee di cristianesimo e don Giussani non è certo tenero, a proposito del ”cattolici cosiddetti democratici” parla di ”dualismo” tra fede e realtà sociale e dice: ”Una fede che non investe la totalità del soggetto non può non diventare astratta”. Eppure riconoscerà a Lazzati un debito intellettuale che risale al fatidico ”54, a Gressoney lo sentì dire: ”Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo”. Negli anni Settanta il Movimento Popolare diventa una sorta di ”braccio politico” di Cl, il clima è caldo, capita che qualcuno si prenda delle legnate. Nel ”76 sarà proprio ”il Gius” a mettere in guardia i ragazzi dall’ideologia: ”Non siamo entrati nella scuola cercando un progetto alternativo ma con la coscienza di portare Cristo, il nostro scopo era la presenza”. Da arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini era perplesso, ”non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma vada avanti così”, glielo avrebbe ripetuto come Papa Paolo VI: ” questa la strada”. Karol Wojtyla ha conosciuto Cl fin dai tempi di Cracovia e nel 2002, per il ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità, ha scritto a don Giussani: ”Il movimento vuole indicare non una strada, ma la strada [...] e la strada è Cristo”. Però il ”don Giuss” è stato anche un personaggio scomodo, talvolta guardato con diffidenza dalle curie. diventato monsignore solo nell’83, a 61 anni, ad ogni concistoro si diceva invano che fosse tra i candidati alla porpora cardinalizia. Intanto gli anni Settanta sono acqua passata, l’ultimo Meeting di Rimini ha chiuso il lungo percorso di avvicinamento con Azione Cattolica e gli altri movimenti, i ciellini sono i primi a notare come il clima intorno alla Fraternità sia diverso. Alla vigilia di Rimini, don Giussani aveva chiamato ”accanto a sé” alla guida di Cl un sacerdote spagnolo di 54 anni, don Julián Carrón, figlio di contadini e docente di Nuovo Testamento, prima di incontrare Cl anche lui aveva fondato un movimento. Di certo è difficile cogliere l’essenziale di un uomo così complesso. Però quand’era bambino gli capitò di accompagnare la madre a messa, prima dell’alba, erano le cinque e mezzo e lui s’era incantato a osservare l’ultima stella del mattino: ”Mia madre, mentre io guardavo, mi disse: ”Come è bello il mondo e come è grande Dio!” stato uno di quei momenti che contengono la chiave di volta per tutta la vita. ”Come è bello il mondo” vuol dire: non è inutile vivere, non è inutile fare, lavorare, soffrire; non è negativo morire, perché c’è un destino. ”Come è grande Dio!”: il grande è ciò a cui tutto fluisce, il Destino» (Gian Guido Vecchi, ”Corriere della Sera” 23/2/2005). «Un maestro, un padre, il don Bosco del XX secolo, un testimone della fede, un innamorato di Dio, un santo. Un crescendo di parole, di laici e di religiosi, di destra, di centro e di sinistra, innalza un monumento a don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione [...] al liceo Berchet, dal tronco di Giuventù studentesca fece sbocciare quello che sarebbe diventato un vasto movimento ecclesiale che agisce robustamente nel mondo. Nella società, nella politica, nell’economia. [...]» (Manuela Cartosio, ”il manifesto” 23/2/2005). «[...] Cielle, una sorta di 68 del cattolicesimo. Erano, infatti, gli anni del postconcilio. Anni vitali, soprattutto giovani. La chiesa cattolica sembrava riacquistare una buona dose di entusiasmo. La Comunione e liberazione di don Giussani sembrava raccogliere e rilanciare quell’entusiasmo. Recuperando alcuni ricchi filoni di pensiero cattolico che nella prima metà del secolo erano apparsi dimenticati. Non tanto una dottrina, dunque, ma una persona, quella del Cristo. La fede non tanto come adesione più o meno dottrinale a un credo, ma come incontro personale con il Cristo. Su questo incontro insisteva don Giussani. Molti giovani lo seguivano anche perché questa ”personalizzazione” della fede cristiana incrociava una cultura che stava uscendo, anche se a fatica, dai meandri e dalle pastoie di un intellettualismo erede dalla cultura borghese dei secoli precedenti e ormai stantio. L’’esperienza” cristiana si sostituiva così alle ingarbugliate pastoie della politica democristiana. In Cielle i giovani trovavano una fede a misura dei loro sogni, delle loro aspettative e soprattutto del loro impegno sociale. Un successo incredibile, dalla Gioventù Studentesca dei licei di Milano alle gioventù di tutto il mondo. Il cattolicesimo sembrava incontrare una nuova stagione, appunto un suo 68. Inevitabili le difficoltà, gli scontri più o meno espliciti. L’antico associazionismo classico temeva di venire spodestato, superato: lo scontro con l’Azione Cattolica è andato avanti fino ai primi anni del nuovo secolo. Ma la stessa gerarchia ecclesiastica ha avuto l’impressione che si trattasse di una sorta di ”chiesa nella chiesa”: lo temeva lo stesso Montini, prima da arcivescovo di Milano, poi da papa Paolo VI. A dare ragione a don Giussani, invece, ha pensato Karol Wojtyla, favorevole, anche per temperamento, ad un cristianesimo che non sta ad aspettare ma che affronta con giovanile entusiasmo il mondo laico e che i muri cerca di abbatterli, non soltanto quelli di Berlino. Entusiasmo: ecco l’espressione più giusta per fotografare il cristianesimo di don Gius, come dicono i suoi. L’entusiasmo di chi non soltanto è sicuro di essere dalla parte della ragione, ma anche di chi è sicuro di proporre le soluzioni giuste. Che, appunto, non sono un codice ma una persona. Sulla spinta di don Giussani e di Cielle, molti altri movimenti sono nati e hanno assunto nel cattolicesimo un ruolo sempre più importante. Basti pensare, fra molti altri, a due casi diversissimi fra di loro ma quanto mai centrali nel panorama del cristianesimo mondiale, da una parte i Focolarini, dall’altra Sant’Egidio. ”Comunità”, come si suol dire, nelle quali i vincoli di appartenenza si stringono al punto di mettere quasi in ombra l’appartenenza alla chiesa universale. Bandiere, identità che possono far dimenticare o sottovalutare quella del battesimo. Una storia che è tipica del cattolicesimo di questi anni e che ha innegabilmente contribuito alla sua forza e alla cui origine non è difficile individuare proprio l’intuizione di don Giussani [...]» (Filippo Gentiloni, ”il manifesto” 23/2/2005). «’Ricordo che la scelta del Berchet fu assolutamente casuale, come un sasso lanciato nel cielo. Mentre salivo i gradini che portavano all’interno del liceo, non avevo idea di chi mi sarei trovato davanti. Vi erano raccolti i giovani rampolli della Milano bene, che non conoscevo e di cui nessuno si occupava allora...”. [...] brianzolo di Desio, che un bel momento decise di lasciar perdere l’insegnamento nel seminario di Venegono e di gettarsi nella mischia, la grande città dei ”fabbriconi” di Testori. Sarà stata la fede di mamma Angela o il temperamento di papà Beniamino, intagliatore di legno, restauratore e socialista anarchico [...] i giovanotti sui gradini del Berchet formarono Gioventù Studentesca che poi divenne Comunione e Liberazione. Lui, per la verità, ha scritto al Papa: ”Non solo non ho mai inteso ”fondare’ niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta” [...] ”l’incontro improvvisato con un gruppo di giovani, qualche tempo prima, su un treno per Rimini. Parlando con loro, li avevo trovati profondamente ignoranti di che cosa fosse il cristianesimo. Così quell’incontro provocò in me la richiesta ai superiori di lasciare la docenza nel seminario per l’insegnamento liceale. Mi fu assegnata scuola di religione nel Berchet di Milano [...] Il criterio ultimo che adottai in classe fu di esaltare un rinnovato fervore in quei giovani, tentando di comunicare la fede di un popolo cui io avevo partecipato. Questo dicevo a me stesso inoltrandomi in quel primo giorno di scuola. Da parte dei ragazzi ho subito notato un interessamento franco e, specialmente in taluni, anche agitato [...] ascoltandomi parlare a lezione, l’animo di certi studenti risultò sorpreso dal fatto che la religione potesse acquistare una vivacità sorprendente di fronte a interrogativi sul significato esauriente dell’esistenza, normalmente ignorato da un punto di vista precario e pur sincero, quale era il loro in quel momento. Domandavo alla Madonna di farmi la grazia di poter mostrare a quei ragazzi in che modo la religiosità raggiunge l’uomo a una profondità inimmaginabile dell’esperienza umana [...] Ricordo ancora, come fosse ieri, la prima esplosione di spregio e di dispetto portata a galla dalla prima domanda a sorpresa, in realtà si trattava di un’obiezione che un ragazzo all’ultimo banco aveva fatto propria dicendo: ”Fede e ragione rappresentano due ambiti profondamente differenti, esistenzialmente ostili’. Parlò di rette sghembe su piani paralleli che non si sarebbero mai potute incontrare... [...] La mia partenza ha preso le mosse da un modo di guardare le cose come ”passione per’, come ”amore’, un atteggiamento di apertura che non lascia partire da soli e mette in moto la vicenda di un rapporto. impossibile affrontare una situazione in cui c’entra la vita senza che questo contesto operi uno scardinamento, una sorpresa. Se accade questo stupore, diventerà logico l’entusiasmo nel parlare ai ragazzi, tutto l’impegno sarà subordinato al lavoro dell’intelligenza: sarebbe infatti un errore seguire qualcuno senza un perché, nel cervello dell’uomo c’è una chiave di volta che esige la spiegazione del perché. In altre parole, senza la sorpresa della realtà come punto di abbrivio, l’uomo resterebbe bloccato, poco o tanto, dalla pura necessità di fare - ma fare cosa? - e sentirebbe inutile qualsiasi tentativo [...] Anzitutto bisognerebbe correggere l’impostazione solita con cui si concepisce la fede. Tutto l’inizio nuovo dell’esperienza cristiana - e quindi di ogni rapporto - non si genera da un punto di vista culturale, quasi fosse un discorso che si applica alle cose, ma avviene sperimentalmente. un atto di vita che mette in moto tutto. L’inizio della fede non è una cultura astratta ma qualcosa che viene prima: un avvenimento. La fede è presa di coscienza di qualcosa che è accaduto e che accade, di una cosa nuova da cui tutto parte, realmente. una vita e non un discorso sulla vita, perché Cristo ha cominciato a ”balzare’ nell’utero di una donna! [...] Sì, è questa percezione del cristianesimo e della Chiesa come vita che si è persa negli ultimi secoli e così si è smarrita la possibilità dell’inizio di una risposta alle domande dei giovani. Se manca l’inizio, non c’è l’attacco al problema posto dalla natura dell’uomo: la necessità di una risposta alle esigenze della sua ragione. Per cui parlare della fede ai ragazzi, ma anche ai grandi, è dire un’esperienza e non ripetere un discorso pur giusto sulla religione [...] Oggi l’uomo vive una sorta di dispepsia esistenziale, un’alterazione delle funzioni elementari che lo rende diviso, come il rapporto uomo-donna citato da Carducci: quando non si considerano insieme all’origine, sono divisi, due entità separate che non si incontreranno nemmeno alla fine. Può risultare facile concepire ad esempio il prodotto di una pagina d’arte soltanto come l’esito di una propria capacità. Così il lavoro, così l’amore alla donna. E questo è un dato di fatto diffuso [...] Ciò che fa diventare diversa la percezione dell’uomo è l’incombente dipendenza che si attribuisce alla natura di ogni cosa prima di partire in ogni impresa: Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente , cantava Leopardi. Così, alla solitudine brutale cui l’uomo chiama se stesso, quasi per salvarsi da un terremoto, si offre come risposta il cristianesimo. Il cristiano trova risposta positiva nel fatto che Dio è diventato uomo: questo è l’avvenimento che sorprende e conforta l’altrimenti malasorte. E per Dio non è concepibile il proprio agire verso l’uomo se non come una ”sfida generosa’ alla sua libertà. L’obiezione moderna che il cristianesimo e la Chiesa ridurrebbero la libertà dell’uomo è nullificata dall’avventura del rapporto con l’uomo da parte di Dio. E invece, a causa di una idea limitata della libertà, per l’uomo di oggi è inconcepibile pensare che Dio si impegni nell’angustia di un rapporto con l’uomo, quasi negandosi. Questa è la tragedia: l’uomo sembra più preoccupato di affermare la propria libertà che di riconoscere questa magnanimità di Dio, la sola che fissa la misura della partecipazione dell’uomo alla realtà e così lo libera realmente”» (’Corriere della Sera”, 15/10/2004).