Varie, 16 agosto 2004
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SCHNEIDER Helga Steinberg (Polonia) 17 novembre 1937. Scrittrice • «Scrive in un italiano limpido, levigato dalla luce di un’intesa profonda e duratura
SCHNEIDER Helga Steinberg (Polonia) 17 novembre 1937. Scrittrice • «Scrive in un italiano limpido, levigato dalla luce di un’intesa profonda e duratura. Eppure questa sua lingua tradisce una filigrana sofferta: la stessa che le ha dato il raro talento di trasformare un’esperienza di vita in materia da scrittura. Nel 1941, quando Helga aveva appena quattro anni, la madre abbandona i figli per diventare guardiana nei campi di sterminio. Da allora lei l’ha rivista due volte, nel 1971 e nel 1998, e di lì ha cominciato a scrivere. Il rogo di Berlino, pubblicato da Adelphi è il primo tracciato di un talento, il suo, davvero speciale, capace come pochi di esporsi al suo lettore. Dopo questo libro ha pubblicato fra il resto Porta di Brandeburgo (Rizzoli), Lasciami andare madre (Adelphi). Helga Schneider vive in Italia dal 1963, ma il pensiero torna spesso a Berlino, la città dove ha trascorso l’infanzia e che meglio di ogni altra rappresenta, anzi visivamente raffigura e quasi incarna con tragica potenza la sua stessa esperienza interiore di appartenenza e rifiuto, di memoria e fuga. Berlino è per lei il luogo d’origine, il naturale punto d’inizio della storia. Eppure è anche, al tempo stesso, il luogo remoto, da cui la sua vita ha preso una distanza tremendamente sofferta. E irreversibile. [...] Berlino era rimasta per me per decenni un remoto punto di riferimento verso il quale provavo sentimenti contrastanti: accorato affetto perché l’avevo vista morire (è vero ciò che dichiarano molti testimoni: Berlino morì come una persona, gemeva, ansimava, difendeva la sua sopravvivenza con le unghie e i denti, ma poi ricevette il colpo mortale e fu finita); e un latente risentimento perché mi aveva dato in sorte solo pene, dolore, solitudine e privazioni. E infine un malinconico e perfino un poco geloso rammarico perché non mi era stato concesso di crescervi e vederla rinascere. Veder risorgere dalla cenere, dalla polvere e dal mare di rovine il senso della giustizia, del diritto e della libertà [...] Dopo la mia nascita in Slesia nel 1937 fui portata a Berlino per viverci e crescervi, ma allo scoppio della guerra nel 1939 solo la fortuna o il caso mi permisero di sopravvivere. Il mio ricordo più remoto di Berlino è legato al giorno in cui mia madre ci abbandonò, nel 1941; poi al giorno in cui la mia nonna paterna, che amavo moltissimo perché dopo l’abbandono di nostra madre si era occupata di me e mio fratello con grande dedizione, intelligenza, sensibilità e amore, se ne era tornata in Polonia. Quella mattina mi sentivo profondamente perduta. La mia matrigna si mostrò fin dal primo momento ostile nei miei confronti. La guerra, papà al fronte, la madre sparita nel nulla, l’amata nonna ripartita, avevo solo 5 anni ma ce n’era di che diventare una bambina ‘disturbata’. Ciò legittimò la mia seconda madre a internarmi per due volte in istituti di rieducazione per bambini difficili [...] Ritornai la prima volta a Berlino nel 1998 perché la Rai aveva deciso di trarre dal mio libro d’esordio Il rogo di Berlino un documentario. Atterrai con la regista all’aeroporto di Tegel e appena messa piede sul suolo berlinese mi venne una specie di pianto liberatorio. Come se per decenni avessi aspettato incosciamente solo quel momento, una specie di ritorno al vero luogo di origine con il quale dovevo pareggiare dei conti. Come se fosse una persona che mi aveva fatto del male, ma che nello stesso tempo amavo molto. Oltre tutto e naturalmente mi rendevo conto che non è stata Berlino a ferirmi e a farmi del male, le città non hanno colpa. È stato un regime nefasto e criminale a a fare del male a me e a tutti i tedeschi che non volevano né Hitler né la guerra. Perché un popolo non è mai interamente il suo Stato, non è mai consenziente nella sua totalità con il suo regime: per questo non si può attribuire una colpa collettiva al popolo tedesco di allora [...) Attraversando Berlino in macchina verso l’albergo mi sono commossa, guardavo fuori dal finestrino con una felicità avida e quasi bambinesca. I giorni seguenti lavoravamo molto, ma ogni cosa a Berlino mi incantava, era tutta una scoperta. Anche il mio vecchio quartiere. Facevo i paragoni: qui c’era una rovina e ora c’è un palazzo. Qui camminava il tram 99 e ora ci sono i filobus. Sottoposi Steglitz, il mio quartiere, a una specie di controllo come farebbe un magazziniere intento a compiere un minuzioso inventario: questo ieri non c’era e oggi c’è; questo ieri c’era (un edificio particolare, la piscina descritta nel Rogo di Berlino, la mia vecchia scuola), e ora non c’è più. Ma sentivo anche ‘i vuoti’ di Berlino, testimoni della tragedia storica della quale la città rappresentò il drammatico ed estremo epilogo. Quei vuoti che solo chi visse e vide allora, riconosce [....]”» (Elena Loewenthal, “La Stampa” 15/8/2004).