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 2004  agosto 12 Giovedì calendario

MONTANO

MONTANO Aldo Livorno 18 novembre 1978. Schermidore. Medaglia d’oro nella sciabola alle Olimpiadi 2004, argento ai mondiali 2007 • « la fogliolina dell’albero genealogico più ramificato nelle Olimpiadi. Quando l’ingegnere suo nonno tornò da Berlino con la medaglia d’argento, i telefoni erano bianchi e le camicie nere. Livorno 1936. Lui, giovane, ricco, buon amico dei Ciano imparentati con il Duce, ci viveva bene. Gli inverni miti, le estati ai bagni dove il meglio della città si ritrovava tra una partita a tennis e un tuffo in mare. Di tanto in tanto, un incrociare di sciabole. Livorno era ombelico della scherma e al centro dell’ombelico c’era la Fides, forse il club più forte del mondo, la società di Nedo Nadi, una medaglia d’oro a Stoccolma nel 1912, altre cinque otto anni dopo ad Anversa, spada, fioretto e sciabola uguale appendice di un braccio straordinario. Pantaloni bianchi o beige, golfini scollati a V per le serate fresche. L’ingegnere sarebbe diventato il capostipite di una grande saga familiare. I norvegesi Lunde, nella vela, hanno vinto medaglie per tre generazioni. I Montano sono fermi alla seconda ma scivolano come moderni Buddenbrooks sull’albo dei Giochi. Monaco 1972. Poche ore prima che i palestinesi si impossessino della palazzina di Israele al villaggio olimpico, Mario Montano, figlio di Aldo, e Mario Montano, suo cugino, figlio di Tullio, vincono la medaglia d’oro a squadre nella sciabola. In questa storia ci si confonde persino sui nomi. C’è Mariolone, benché sia il più esile dei due. E c’è Maotsino, il piccolo Mao Tse Tung, non perché Mario Aldo, il figlio dell’ingegnere di Berlino, si ispiri alla Rivoluzione culturale ma perché quel volto largo, grassoccio, con occhi che sembrano tagli nella luna, ricorda alla lontana quello dei cinesi. E c’è Tommaso. E c’è Carlino. Tutti cugini, sul podio a Montreal nel ”76. Parenti coltelli, a volte. Ma questa è un’altra storia. La scherma è tradizione di famiglie. I Bertinetti a Vercelli, i Mangiarotti a Milano, i Borella-Dal Zotto a Mestre. Uno comincia e gli altri lo seguono. Aldo, che chiamano - indovinate un po’? - Aldino, l’hanno immerso da piccolo in questo stagno di lame e di cocce. Immaginate un Natale a casa Montano, nella villa con il grande parco nel cuore di Livorno. Quadri preziosi, saloni eleganti e a tavola di cosa si parla? Sono i racconti di sempre. Il trofeo Luxardo del ”79, un campionato italiano finito con un litigio. Venti, al massimo trenta episodi. Sul filo del ricordo. Aldo li conosce a memoria e non si stanca di ascoltarli. [...] Il peso della tradizione. Come nei circhi. O negli studi dei notai. ”La prima domanda, quando gareggiavo da bambino, era di quale Montano fossi figlio. Pareva che fosse l’unica cosa importante, poi per fortuna hanno cominciato a occuparsi di quello che facevo io e il peso si è attenuato. La crisi l’ho vissuta attorno ai 13 anni: i miei amici si divertivano con il pallone, io molto meno con la scherma che è uno sport dove ti trovi solo. Pensavo: mi butto anch’io nel calcio, tanto c’è la sponda familiare pure lì. Siamo parenti dei Picchi. Sa l’Armando che era il capitano della grande Inter? Era cugino del nonno. Poi venne una stagione discreta e con i primi risultati decisi di restare dov’ero’. Il nonno lo allenava nei corridoi della villa, il padre lo sosteneva nei tornei. Che tipo, il Maotsino. Vedemmo in tv il suo assalto che decise la vittoria a Monaco sui russi: contraddiceva ogni nostra scarsa conoscenza della scherma. L’immaginavamo praticata da giovani ufficiali e nobili blasé. ”In guardia, conte”. E poi quella mania di parlare sempre in francese. Maotsino in pedana si agitava come Gattuso, urlava come un portuale, se la prendeva con i giudici più di Gaucci (allora erano quattro e l’azione la ricostruivano come pareva a loro). Cento chili di esplosivo dentro una tuta bianca. Altro che ”touché” e ”pardon”. Attorno al figlio, le stesse scene. Non si può tirare contro uno di Livorno se tra il pubblico ci sono dieci livornesi. Aldo il giovane però ha un altro stile. ”Assomiglio di più al nonno. Mio padre attaccava, aggrediva, era una tigre con la voglia del sangue come vorrei essere anch’io, ma non ne ho la natura. Io difendo, sto sulle mie, colpisco. Io sono un serpente”. Un cobra svogliato, lo descrivevano. Bello come un indossatore, ricco da non negarsi nulla. Donne da mettersi in coda per guardarle. Pure miss Venezuela. Quando uno ha tutto, perché dovrebbe fare la fatica di sbattersi? ”Ma la colpa era dell’ambiente che non mi stimolava. Non avevo compagni con cui allenarmi. Alla Fides mi tolsero pure l’allenatore, Sidiak, un grandissimo, un altro della grande Russia affrontata da mio padre. In consiglio c’erano soltanto genitori di fiorettisti, la sciabola la buttarono in cantina. Me ne andai”. Per un Montano lasciare la Fides è come se un Boniperti avesse giocato nel Torino. Roba da lacerarsi il fegato. ”Nel consiglio direttivo c’era pure Carlo, mio cugino, l’unico che gareggiasse nel fioretto. Da allora non gli parlo più, anche se mi dicono che si informa di cosa faccio”» (Marco Ansaldo, ”La Stampa” 12/1/2004).