11 agosto 2004
Tags : Kary. Mullis
Mullis Kary
• Nato a Lenoir (Stati Uniti) il 28 dicembre 1944. Scienziato. Premio Nobel per la chimica 1993. «Chiamarlo il padre della genetica moderna potrà sembrare ecessivo. Prima vengono almeno Mendel, con la sua teoria dell’ereditarietà, Watson e Crick che scoprirono la struttura della doppia elica, ma di certo senza Kary Mullis non avremmo sentito parlare così tanto di geni [...]. E non saremmo costantemente bersagliati dalle promesse della genetica che, ogni giorno, si candida a curare ogni malattia e a spiegare ogni momento umano. [...] Kary Mullis, l’uomo che a metà degli anni Ottanta ha inventato la Pcr, il procedimento chimico che permette di isolare e amplificare una sequenza cercata all’interno di un campione di Dna, e ha reso così possibile l’irresistibile ascesa della genetica, dal sequenziamento del genoma umano alla messa punto dei test usati oggi negli ospedali come nei tribunali. Per questa invenzione Mullis ha ricevuto il premio Nobel per la chimica nel 1993. [...]» (Nicola Nosengo, ”L’Espresso” 14/4/2005). « [...] difficile concepire che la storia della scienza non sarebbe la stessa senza un ex fricchettone [...] che, ogni mattina, sta in equilibrio sul suo surf, i radi capelli al vento, puntando verso una spiaggia della California. Eppure, senza Kary Mullis il genoma sarebbe ancora un mistero. Senza di lui non avremmo modo di sapere se un alimento è stato modificato geneticamente. Michael Crichton non avrebbe potuto immaginare Jurassic Park e la giustizia dovrebbe ancora affidarsi alle impronte digitali perché non avremmo il test del dna. La possibilità di avere terapie geniche contro le malattie ereditarie sarebbe un miraggio. L’era delle biotecnologie è stata divisa in due dalla scoperta di Mullis: pre e post ”pcr’ (protease chain reaction). La reazione a catena della polimerasi è un metodo che permette di estrarre in pochissimo tempo grandi quantità di dna anche da una sola cellula e di poterne così identificare con precisione il materiale genetico. I laboratori di tutto il mondo oggi hanno una macchina della pcr, spesso autografata da Mullis, che grazie a essa nel 1993 ricevette il premio Nobel per la chimica. Stavano per non darglielo: la vita di Mullis è costellata da troppo lsd (fatto in casa), troppe donne (ci ha provato anche con l’imperatrice del Giappone), troppe opinioni eterodosse (secondo lui l’aids non è causato dal virus hiv). [...] ”l’azienda per cui lavoravo, la Cetus, mi ha liquidato con un bonus di 10 mila dollari. Poi hanno rivenduto il brevetto alla Hoffman La Roche per l’equivalente di 600 miliardi di lire. [...] Ero sprovveduto. Su ogni brevetto ci sono due voci: ’inventore’ e ’assegnato a...’. Su quello della pcr il mio nome compare alla prima riga: se potessi tornare indietro, sceglierei l’altra” [...]» (Marco De Martino, ”Panorama” 8/6/2000). «Il modo migliore per presentare il biochimico americano Kary B. Mullis [...] è [...] il seguente: nel preciso momento in cui avete iniziato a leggere questa frase, in un qualche laboratorio biologico del mondo, un tecnico ha appena iniziato, o ha appena terminato, una reazione di polimerizzazione a catena (in breve, per gli iniziati, Pcr cioè Polymerase Chain Reaction). un metodo rapido ed efficace, ormai del tutto automatizzato e poco costoso, per ottenere miliardi di copie fedelissime da un qualsiasi frammento di Dna, nell’arco di poche ore. Quel frammento potrebbe, per esempio, essere un gene raro, o una parte di esso, da ricombinarsi poi con qualche altro frammento o gene. Mullis escogitò questo piccolo grande prodigio un venerdì sera del 1983, mentre guidava la sua auto lungo la statale 128 della California, nei boschi tra Berkeley e Mendocino. Già perfezionato e diffuso fin dal 1985, gli valse il Premio Nobel per la chimica nel 1993, diviso con l’inglese (ma poi americanizzato) Michael Smith, inventore di una tecnica volta a produrre mutanti genetici in modo estremamente mirato. La Pcr (che in inglese si pronuncia pisiaar) è stata così definita dal capo del progetto genoma, Mark Hughes: ”La tecnologia biologica più importante degli ultimi cento anni”. Sui siti web specializzati, sui manuali di ingegneria genetica, nei buoni salotti californiani e ormai perfino nei libri di testo delle superiori non si lesinano, per la Pcr, aggettivi come ”rivoluzionaria”, ”risolutiva”, ”di geniale semplicità”, ”di grande eleganza”. [...] ”Non avrei mai immaginato, all’inizio, l’enorme diffusione che questa invenzione avrebbe avuto. Allora io lavoravo alla Cetus ([...] la prima ”corporation” di bio-ingegneria della storia, e probabilmente tuttora la più famosa, situata nei pressi di San Francisco, ndr) e tentavo di amplificare in modo specifico, senza errori, in laboratorio, delle sequenze naturali di Dna. Cominciai a fare copie di copie di copie. Ma era un disastro, in quanto gli errori di sequenza si moltiplicavano senza controllo. Ed era, inoltre, una procedura noiosissima, basata su cicli di raffreddamento e riscaldamento dei prodotti e dell’enzima specifico che duplica il Dna in natura [...] La sorte volle che, all’altro estremo del corridoio dei laboratori Cetus, lavorasse un’eccellente biochimica, Sharon Shoemaker, intenta a studiare le fermentazioni e dedicatasi a convertire masse di residui biologici in alcool. Sharon lavorava con enzimi estratti da batteri che sono detti termofili, perché sopportano temperature assai elevate senza alcun danno biologico. La polimerasi di questi batteri resiste alla temperatura di un bagno molto caldo, mentre, a quella temperatura, il Dna si srotola, si scinde in due eliche distinte e complementari, ciascuna delle quali può darne un’altra e queste darne altre due e così via, appunto, in una reazione a catena”. Mullis non specifica, perché è per lui ovvio, che fu proprio la geniale introduzione di questo enzima, resistente alle alte temperature, a rendere possibile la Pcr. Il cacio che lui aggiunse a questi caldi maccheroni di Dna furono delle sequenze chimiche addizionali, in testa e in coda del gene che interessa, che si riconoscono e si appaiano tra di loro specificamente, un ciclo dopo l’altro. [...]» (’Corriere della Sera” 6/10/2004). Vedi anche: Riccardo Chiaberge, ”Sette” n. 17/1999.