Varie, 10 agosto 2004
CUCCHI
CUCCHI Enzo Morro d’Alba (Ancona) 14 novembre 1949. Artista • «Uno dei grandi artisti italiani contemporanei. E, a pensarci bene, questa affermazione può apparire paradossale per un pittore che è stato tra i protagonisti della Transavanguardia (gli altri: Paladino, de Maria, Chia, e Clemente). Corrente teorizzata da Achille Bonito Oliva alla fine degli anni ’70, interpretata da molti come il ritorno glorioso a un nuovo Espressionismo, all’eccesso individuale frutto della reazione alla freddezza della precedente arte concettuale. Ma per capire Cucchi bisogna innanzitutto eliminare i luoghi comuni, fare a meno delle formule, dimenticare, magari, quello che si sapeva prima e mettersi nelle condizioni di sorprendersi, di abbandonarsi alla meraviglia. L’esempio è lo stesso Cucchi a fornirlo, quando parla con ammirazione del ”clown di Pasolini che, mentre sta per morire, guarda il cielo e dice ’oh! la nuvola’”.[...] ”Se pensi solamente al peso, a quanto può pesare la montagna ti metti paura...” Eccola, la meraviglia. Per questo suo modo di trasferire sulla tela una specie di incantamento di fronte alle cose, l’artista è stato più volte paragonato al fanciullino di Pascoli. Ma l’occhio di Cucchi più che infantile è rapace. Lo si capisce subito dal modo velocissimo in cui si muove, parla, osserva e cattura la vita che gli sta intorno. Per questo poi ha bisogno dell’esercizio di disciplina. Per tradurre il suo bottino di caccia in una pittura che mira all’essenziale e che si basa soprattutto sul gesto del disegno. E così ecco sfatato un altro pregiudizio, quello che vede la Transavanguardia come felice ritorno alla sensualità della pittura. ”Per carità. Io non indugio mai al piacere della pittura. Se fosse così mi andrei a fare una passeggiata. Dipingo con materiali che puzzano, che fanno male...” Ma allora perché ? ”Non ne posso mica fare a meno. Lo faccio perché è necessario [...] è necessario un antidoto all’ignoranza che si diffonde come un virus [...] Il colore non esiste. C’è il disegno, e poi c’è la luce. Basta così. I grandi hanno basato la loro arte sul disegno. Penso a Giotto, a Masaccio, soprattutto a Piero della Francesca, che è di una modernità incredibile, ancora oggi sorprendente. Da dove viene la luce della collana della Madonna di Senigallia? Non si sa mica. E poi Raffaello, uno così bravo da diventare odioso”.Cucchi è un pittore visionario, è un inventore di storie, uno che salvaguarda le leggende di ”esserini” - come chiama le sue figure - di animali - gli uccellini di San Francesco, ma anche i lupi, i cani - e poi di teschi, colline, campane del villaggio, fuochi, magari propiziatori, navi, boschi, mari. Insomma, tutto ciò che può appartenere all’immaginario di un eterno ragazzo di Morro d’Alba. [...] Le sue radici sono la fonte dei quadri: ”Sono ciò che conosco, io apprezzo solo il localismo, il provincialismo è già grande e non lo acchiappo. Se dovessi incontrare un africano come faccio? Mi servo dei miei segni, delle mie immagini, e lui farà lo stesso con i suoi. Anche lui avrà creato il suo sistema di armonia di segni. Dove invece c’è globalizzazione tutto è narcotizzato [...] una questione di misura tutto può servire a cercare di comprendere il mistero delle forma... tutto, anche, che so, una pera... Purtroppo c’è chi non capisce la pera, vuole il frullato... Oggi all’arte si fa qualcosa di terribile” [...] cosa può fare l’artista a questo punto? ”Deve guardare indietro, non deve mai pensare al futuro. Quello lo lasci fare agli architetti che fanno danni irreversibili. L’immagine più bella è quella di Melville: l’uomo è appena arrivato al mare, lo guarda, tu ti aspetti che dica chissà e invece, ecco un’unica frase ”tutte le cose vanno a mare”» (Lea Mattarella, ”La Stampa” 10/8/2004). «[...] artista della Transavanguardia [...] accetta il movimento con pittura e disegno, inscrive le cifre del proprio linguaggio concavo sotto il segno dell’inclinazione, letteralmente del clinamen, dove la caduta non avviene mai a picco, dove non esiste pondus, ma sempre movimento ancorato alla curva di una caduta rallentata, in cui microcosmo e macrocosmo si attraversano, in cui caos e cosmos trovano fuoco per la propria combustione, in cui la terra rimane al proprio posto. La navigazione è celeste e profonda, avviene a vista, secondo un colpo d’occhio che coglie contemporaneamente l’insieme e nello stesso tempo enumera i particolari condensati di una biologia della storia, alberi, piante, case, archi, nuvole, animali, bambini elefanti, asini, cani, montagne, lune, inscritti come cifre sovrapposte spazialmente e sincroniche temporalmente. Il disegno è lo strumento praticato da Cucchi che sottrae gravità e peso alle cose, per raggiungere uno stato leggiadro di leggerezza e di sospensione che le distanzia dalla necessità della materia. Così liberate, disancorate e proiettate in incroci ed attraversamenti, si adattano in rapporti di integrazione e di sposalizio. La metamorfosi ha sempre il carattere della crescita e dello sviluppo, mai del superamento. Ogni cosa viene inclinata per meglio disseminare all’aperto e liberare tutti i nascondigli, i buchi per altri disegni, in maniera che il clima notturno, il chiuso, si rovesci in quello diurno, l’aperto e il visibile. Enzo Cucchi radicalizza la pratica pittorica, assumendo il quadro come uno strumento e non come un fine. La pittura diventa un processo di aggregazione di vari elementi, figurativi e astratti, mentali e organici, espliciti e allusivi, combinati tra di loro senza soluzione di continuità. Materia pittorica e materia extrapittorica (luce naturale, luce artificiale) si incrociano sulla superficie del quadro. Tutto risponde a una dinamica, a un movimento inarrestabile che trascina figure dipinte e linee di colore fuori da ogni legge gravitazionale. Sul piano del linguaggio visivo Scipione e Licini sembrano i punti di riferimento della pittura di Cucchi. Del primo egli riprende l’uso del colore come sbavature. Di Licini, il senso dinamico dello spazio, la libertà di collocare gli elementi figurali fuori da qualsiasi riferimento naturalistico. Molti teschi abitano il paesaggio di Cucchi, dislocati in maniera ariosa e costipata intorno alla fuga dell’asino o rotolanti e fissati a barche, tronchi e cascate di colore. In tal modo l’immaginario esprime la sua carica di totalità, il bisogno di trascinare nel suo movimento turbinoso anche la radice della vita che è la morte. ”Grande paese scopersi nella malattia”, dicevano i manieristi. Essere vivi, per Cucchi, significa proprio allargare il campo di una iconografia del quotidiano che rimuove la morte e la malattia, per garantirsi un controllo dell’esistente fino all’igiene del teschio. Funzione dell’arte è proprio la possibilità di poter corrompere tale sbarramento, aprirlo verso la decomposizione vitale di altre immagini che contengono, come scatole cinesi, dinamiche imprevedibili e non progettabili, aperte ad un’economia dissipante e non garantita da nessuna forma, inquinate da un cupio dissolvi che ribalta tutto nella vitalità dell’arte. ”Nell´arte c’è una gioia che porta in sé il piacere della distruzione” (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli). L’artista per costituzione parte da un paesaggio di rovine, soltanto da questo può partire per praticare anche un intento costruttivo. Per Cucchi, l’arte abbisogna di una preventiva catastrofe che azzera l’esistente e lo riduce nella cordialità di reperti rovinosi da manipolare successivamente con gli attrezzi di un’opera che ormai si muove liberamente tra pittura e scultura. La potenza creativa non può inventare nulla dal nulla, ma può umanamente assemblare insieme elementi estranei tra loro, ”... poter sovrastare anche la morale: e non soltanto starcene impalati lassù con l’angosciosa rigidità di chi teme all’istante di scivolare e di cadere; ma, inoltre, ondeggiare e giocare su di essa!” (F. Nietzsche). In questo senso l’opera di Cucchi si muove sotto la forma di un’onda interna che disarticola i suoi paesaggi e li sottopone ad una combustione che non conosce leggi di gravità. La gravità significa ancoraggio a norme di sicurezza morale che l’arte non conosce e non vuole conoscere, in quanto non si lascia garantire da nessun valore preesistente e da nessuno status quo. Così l’opera diventa il grimaldello che scava dentro le rovine e ricompone i reperti secondo leggi di ondeggiamento perenne, non assimilabile a nessuna statica dell´ordine. Ma ci fa allegramente sospirare be.. be.. be.. (all’ombra)» (’la Repubblica” 25/7/2005).