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 2004  luglio 29 Giovedì calendario

CALLIERI

CALLIERI Carlo Vittorio Veneto (Treviso) 29 aprile 1941. Manager. Presidente della Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo. Presidente della Scuola di restauro di Venaria. Carriera alla Fiat, lasciata nel 1998 insieme a Cesare Romiti, di cui fu collaboratore. Nel 2000, forte dell’appoggio della Fiat, sembrava favorito nella corsa alla presidenza di Confindustria. Sconfitto invece al ballottaggio, e piuttosto nettamente, da Antonio D’Amato • «Nel 1979 Carlo Callieri era capo del personale di Fiat auto. Fu lui, insieme ai vertici dell’azienda, a stilare la lista dei 61 operai da licenziare perché contigui al terrorismo. Una scelta che provocò non poche proteste a sinistra. Dottor Callieri, perché sceglieste la strada dei licenziamenti? ”La situazione era molto pesante. Alla fine di settembre Prima Linea aveva ucciso Carlo Ghiglieno, dirigente della pianificazione strategica di Fiat auto. Era chiaro che chi aveva compiuto l’azione poteva contare su solide complicità in fabbrica. Per questo decidemmo di agire”. Come compilaste la lista? ”Al termine di un’inchiesta interna. Avevamo già preparato da tempo un elenco di persone contigue ai collettivi operai della Fiat. In una quindicina di casi le indagini hanno poi dimostrato che avevamo visto giusto”. Nella vostra indagine chiedeste consiglio a qualche partito della sinistra? ”Si riferisce al Pci? La risposta è no. Avevamo buoni rapporti con alcuni dirigenti ma non abbiamo mai discusso con loro di questo. Informammo i sindacati il venerdì sera, i licenziamenti arrivarono il lunedì”. Come reagirono i sindacati? ”Parlammo con Cgil, Cisl e Uil. Per la Cgil ricordo che contattai Bertinotti. Reagirono molto male. Ma non era quella la reazione che ci interessava di più. Era piuttosto quella dei capi e degli operai che ci dissero: ”Era ora, avete fatto bene’. Lo sciopero di protesta indetto il lunedì fu un fallimento”. Quali prove avevate a carico dei licenziati? ”Questo era il problema. Non potevamo scoprire le nostre fonti interne. I giuristi ci dissero che avevamo agito in modo brutale e senza garanzie. Era vero ma non avevamo alternativa”. Certo la tentazione di inserire nella lista anche qualcuno che vi dava fastidio pur non essendo terrorista, era molto forte. ”Lo so. Ma non avvenne. Avevamo individuato per questo un numero limitato di persone e la lista passò al vaglio di tre-quattro filtri interni”. Qual è la differenza tra le biografie dei terroristi di fabbrica di allora e quelli di oggi? ”In gran parte nessuna. Mi arrabbio quando sento parlare di nuove Br. Io vedo invece una sostanziale continuità. Oltre che nelle analisi anche nel modo di operare, compreso il sistema di nascondere le armi nei campi. Sa quanti arsenali di questo genere c’erano all’epoca in val di Susa? Un giorno Dalla Chiesa mi fece leggere i diari di fabbrica di alcuni brigatisti. Le loro analisi sono molto simili a quelle di oggi”. Lei ha conosciuto Alfredo Davanzo? ”Ricordo vagamente il suo nome perché aveva lavorato in Fiat. In alcuni casi gli arrestati di oggi sono vecchi arnesi del terrorismo con decenni di clandestinità alle spalle. Gente che si è nascosta in quel grande serbatoio dei fuoriusciti che è stata Parigi. A questi si aggiunge qualcuno che è rimasto nascosto in Italia e che per il suo passato è particolarmente ricattabile”. singolare chiederlo a lei ma che cosa suggerirebbe oggi ai dirigenti della Cgil? ”Di tenere gli occhi aperti soprattutto ai livelli di base dell’organizzazione, dove il controllo delle biografie è oggettivamente difficile. Perché quello è il punto debole, dove la propaganda o addirittura l’entrismo possono avere presa facile”» (Paolo Griseri, ”la Repubblica” 15/2/2007) • «[...] nel 1980, aveva 39 anni. Era direttore del Personale e Organizzazione di Fiat Auto. Il ”generale” incaricato di riportare la fabbrica sotto controllo. Ci riuscì, usando il pugno di ferro, senza preoccuparsi del guanto di velluto. ”[...] La Marcia dei Quarantamila nasce per auto-organizzazione: furono i capi Fiat, preoccupati per la situazione, a deciderla. A dire il vero, il progetto iniziale era un incontro al Teatro Nuovo: fui io a suggerire il corteo, dissi che mi sembrava stupido chiudersi lì dentro, dove la città non li avrebbe visti. Loro erano titubanti, temevano che non venisse gente. Li convinsi: a Torino i capi Fiat erano diecimila, bastava un po’ di passaparola e sarebbe arrivata una folla. Così fu [...] Romiti [...] era scettico. Lui e Ghidella stavano trattando con i sindacati la questione degli esuberi, a Roma, e si andava verso un accordo che per l’azienda sarebbe stato perdente. A Ghidella, soprattutto, non piaceva: così mi riferiva Giorgio Benvenuto, che era amico mio e mi teneva informato. Però volevano chiudere: l’incontro decisivo era fissato per un lunedì, e io proposi di rinviarlo di un giorno, di aspettare il martedì, perché quel martedì ci sarebbe stata la marcia. Romiti non era convinto. Allora mi telefona l’Avvocato Agnelli e mi domanda: ”Si sente sicuro di questa cosa?’. ”Avvocato, conosco i capi Fiat’, rispondo. ”Va bene’, taglia corto lui, ”allora rinviamo’. Così, quel martedì andammo a Roma per incontrare i sindacati all’hotel Boston: al secondo piano Romiti e Ghidella discutevano con i segretari generali, e al piano di sotto c’eravamo noi, i ”ragazzi’: Cesare Annibaldi, Paolo Panzani, ed io. Aspettavamo. A un certo punto i fax cominciano ad arrivare a raffica, con le notizie di ciò che stava capitando a Torino. Un crescendo rossiniano. Noi salivamo a portare i fax, e loro, i sindacalisti, alla fine gettarono la spugna, Lama disse a Romiti: ”Preparate il testo dell’accordo’. L’accordo era già scritto, l’aveva in tasca Panzani. Lo portammo, firmarono. Avevamo vinto [...] Il 1980 è il culmine di una parabola cominciata dieci anni prima e che si smorza nei dieci anni successivi: la contestazione, il rifiuto del merito, l’egualitarismo spinto che caratterizzò il Sessantotto italiano. A Mirafiori allora c’erano cinquantamila dipendenti: almeno il 25 per cento era in eccesso, la produttività era ridotta ai minimi termini. In quegli anni, però, gli operai erano cambiati: erano entrati giovani e donne, ma i politicizzati erano una minoranza. La massa, quando partivano i cortei interni, ne approfittavano per stendersi al sole nei prati davanti alla palazzina degli uffici, io li vedevo, stavano lì, amoreggiavano... La situazione era pesante, ma la massa la viveva con distacco: e il sindacato non se ne rendeva conto. Si andava avanti con i vecchi riti del Sessantotto, ricalcati stancamente. [...] Questo distacco fu una delle cause della debolezza e della conseguente sconfitta sindacale, insieme con la rottura con la città causata dalle manifestazioni di piazza. L’anno prima c’era stato un contratto molto duro. I cortei, fino ad allora interni, invasero le strade di Torino: traffico bloccato, e chi protestava le prendeva [...] Nel ”79 ero a Roma, distaccato al ministero del Lavoro. Umberto Agnelli mi chiamò chiedendomi di rientrare in Fiat Auto dove si preparava il cambio della direzione generale. Fu quello il momento del ”basta’. Poi ci vollero un paio d’anni. Prima di tutto dovemmo fare una diagnosi della gestione della fabbrica, definire un rapporto non più torbido con il sindacato: anche tra la dirigenza c’erano ampie zone di compromissione, per paura, per opportunismo, o semplicemente perché qualcuno badava solo ai fatti suoi. Poi vennero i licenziamenti dei 61 operai che ritenevamo vicini al terrorismo, o comunque a frange violente; fu una scelta radicale ma necessaria. Infiltrazioni terroristiche in fabbrica c’erano, e robuste: contiguità, di sicuro. Non dico che i 61 licenziati fossero tutti terroristi. Ma fu un segnale forte. Dicemmo ”basta’ [...] facevo una vita quasi normale, nel weekend andavo a sciare, o a fare la spesa, senza scorta. I miei figli frequentavano la scuola pubblica. Sì, avevo la sorveglianza sotto casa, e giravo con la pistola in tasca. Ma paura, no. Mai avuta”» (Gabriele Ferraris, ”La Stampa” 16/1/2008).