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 2004  luglio 25 Domenica calendario

VANCINI Florestano Ferrara 24 agosto 1926, Roma 17 settembre 2008. Regista • «[...] Ferrarese come Antonioni, Vancini appartiene alla generazione di esordienti che fa irruzione nel cinema italiano degli anni d´oro attorno al ”60

VANCINI Florestano Ferrara 24 agosto 1926, Roma 17 settembre 2008. Regista • «[...] Ferrarese come Antonioni, Vancini appartiene alla generazione di esordienti che fa irruzione nel cinema italiano degli anni d´oro attorno al ”60. Il bellissimo La lunga notte del ”43 è il suo biglietto da visita, Le stagioni del nostro amore è un formidabile spaccato sui sogni infranti dei quarantenni di metà anni 60, Bronte e Il delitto Matteotti sono due grandi successi quando il cinema italiano si politicizza al massimo. [...]» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 15/4/2005). «Sono nato a Ferrara e questa città mi ha formato. La lunga notte del ´43, mio primo film, è ambientato a Ferrara e il fatto che racconta l´avevo vissuto. La storia di Ferrara è sempre stata una passione. [...] I miei sono in gran parte film storici, al passato. Sul presente ne ho fatti pochi: la Piovra 2. Non si può ignorare da dove si viene. L´uomo è l´unico animale che ha memoria, che può documentare il suo passato. [...] Il cinema italiano recente è tutto al presente ma senza quasi rapporto con la società intorno, senza mai uno sguardo all´esterno. E io pretendo che lo spettatore mi dia attenzione su qualcosa che non lo riguarda, senza alcun riferimento alla realtà di oggi. Ma perché leggiamo ancora e rappresentiamo le tragedie greche? Perché mettono in scena la vicenda dell´uomo che si ripete sempre: cambiano i modi, i mezzi, ma dentro l´uomo è cambiato poco [...] Nel ´74 ho fatto un film sul delitto Matteotti, un successo. Ma era un momento diverso. Oggi vedo un cinema così chiuso dentro ai rapporti personali, dentro le case e le stanze, le famiglie, come se il mondo non esistesse» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 25/7/2004). «[...] ”La politica di una volta era una fede, una missione, avevamo la verità in tasca, volevamo cambiare il mondo, credevamo di poter cancellare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, proprio come – pensavamo in buona fede – era avvenuto in Urss. Guardavamo al comunismo realizzato come a un sogno, a quei Paesi come a un paradiso terrestre. Avevo diciott’anni, la tessera del partito clandestino, la voglia di lottare. Prestissimo, dopo la guerra, a Ferrara, diventai responsabile dei giovani. Riunioni di sette ore per non dire nulla, dovevamo stare seduti per assistere al rito. Non faceva per me. Cominciavano le prime delusioni, la rottura con la Jugoslavia, Tito che dalla sera alla mattina diventava un nemico, non capivo e nessuno spiegava. Nel giro di pochi mesi, lascio. Ho conservato la tessera del Pci fino al 1956. Dopo Budapest non ce l’ho fatta più. [...] tutti i miei film sono risultati sgraditi al potere culturale [...] Ho parlato di guerra civile fra italiani, di errori/orrori del comunismo, di stragi compiute in Sicilia dai garibaldini, ho cercato di mostrare la grandezza morale di Matteotti, al di là del suo omicidio. Andavo a cercare gli episodi meno conosciuti, cercavo di mettere in luce l’altra faccia dell’eroismo ufficiale. Ho pagato molto, per questa scelta. Sono l’unico autore fuori da tutte le rassegne, dai premi, lontano dai nastri d’argento, i miei film non sono mai previsti nelle serie vendute dai quotidiani. Ma non mi sento una vittima, anzi. Avrei dovuto fare lo storico, era quella la mia vera passione”. [...] è alto e ha un portamento elegante. [...] ”[...] nato a Ferrara il 24 agosto 1926, nel 1966 fui praticamente cancellato per avere raccontato, in un film che si chiamava Le stagioni del nostro amore, le cose che ci dicevamo, noi autori di sinistra, la sera a cena. Un errore imperdonabile: avrei dovuto girarci intorno, usare metafore. Dino De Laurentiis mi invitò: ”Togli la politica, è una bella storia d’amore’. E invece scelsi come protagonista un giornalista comunista, deluso dal crollo dei suoi ideali. Goffredo Fofi definì il film ”una buffonata’. L’Unità mise la recensione, ultima di dodici, poche righe dopo un film di Franco e Ciccio. Gli altri, tutti, mi avvolsero in un silenzio assordante. [...] Mi ha fatto piacere che Piero Fassino, invece, avesse raccontato di essere stato sconvolto da quel film. ”Fu come una folgorazione’, disse. Ci siamo parlati, lui mi ha spiegato che vide il film quando aveva sedici anni, due mesi dopo la morte di suo padre, che era stato un socialista. Mi confessò che la notte non aveva dormito e l’indomani a scuola aveva preso un tre, l’unico della sua carriera di liceale”. Vancini era arrivato a Roma da Ferrara all’inizio dei Cinquanta: ”Dopo una lunga corrispondenza con il ferrarese Antonioni, iniziai con lui e con Citto Maselli, sono stato aiuto regista di Valerio Contribuì alla sceneggiatura di Bronte, che narra una pagina nera del Risorgimento [...]”. Figlio del portalettere di Boara, a 5 km da Ferrara, andava in bici in città per frequentare le medie. ”Ero l’unico a continuare gli studi dopo le elementari, gli altri andavano in campagna o ”a mestiere’, a imparare a fare i meccanici. A Ferrara, mia madre mi portava all’Opera a sentire Beniamino Gigli, alla sera ascoltavamo i concerti Martini e Rossi trasmessi alla radio. Leggevamo Il Corriere Padano fondato da Italo Balbo e diretto da Nello Quilici, padre di Fulco: era un grande giornale e aveva un’ottima terza pagina. Dopo avere visto Ombre rosse e La grande illusione, iniziai a comprare Cinema, la rivista ideata da Vittorio Mussolini dove scrivevano De Santis, Lizzani, Antonioni. L’unico che davvero, in quegli anni, si era tenuto lontano dal fascismo è stato il grande scrittore ferrarese Giorgio Bassani. Fin dal 1938, era uno dei nomi noti all’Ovra, la polizia segreta del Duce. Nel 1943, a causa dell’armistizio, l’anno scolastico iniziò con un mese di ritardo, il 15 novembre. Era il mio primo giorno di scuola: come sempre attraversai Ferrara in bicicletta, quando vidi i morti, tutti borghesi e antifascisti, in piazza. Erano undici: quattro e quattro ai lati delle mura davanti alla farmacia, due sulle mura e uno più lontano, da solo, doveva essere un passante fucilato per caso insieme agli altri. Una strage che ha segnato per sempre la mia vita. Tutti in città sapevano che erano stati gli italiani, i fascisti, a compiere quella orrenda vendetta: conoscevo i morti, pensai che avrei dovuto raccontare, prima o poi, la verità su quella vicenda. Bassani scrisse una novella e allora mi decisi a cercare un produttore. Ma Goffredo Lombardo mi negò i soldi: ”Fai vedere gli italiani che si sparano fra loro, chi altro lo sa? Non è meglio usare i tedeschi?’. In quegli anni, la Resistenza si raccontava così: italiani tutti patrioti e tedeschi tutti oppressori. Per produrre La lunga notte del ”43 mi aiutò Mauro Bolognini, mandò il copione a Tonino Cervi e a Sandro Iacoboni”. Il film è premiato alla mostra di Venezia nel 1960, l’estate in cui crolla il governo Tambroni: ”Alle prime proiezioni, la polizia aveva mandato le camionette, c’era un clima pesante. La Dc stava per voltare pagina, mollare il Msi per incamminarsi verso il centrosinistra”. Con Vancini parliamo per ore, andiamo dal Rinascimento che ha ispirato il suo ultimo lavoro, E ridendo l’uccise, un film in costume che denuncia la distanza fra la vita degli Estensi e quella della povera gente, alla nascita delle leghe contadine nel ferrarese [...]”. La repressione dei moti popolari è anche il tema del capolavoro di Vancini, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato [...] La storia del paesino che si ribella all’arrivo dei garibaldini guidati da Nino Bixio, raccontata in codice in una novella di Verga, La libertà, venne bollata da Leonardo Sciascia, come ”uno scheletro nell’armadio” del Risorgimento. Scritto proprio insieme a Sciascia (’un polentone padano come me aveva bisogno della sua sicilianità”) il film svela un segreto nascosto dai resoconti ufficiali e mostra l’altra faccia dei ”liberatori”. [...]» (Barbara Palombelli, ”Corriere della Sera” 19/11/2005).