Varie, 25 luglio 2004
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Liboni Luciano
• Montefalco (Perugia) 6 maggio 1957, Roma 31 luglio 2004 (ucciso dai carabinieri). Bandito. Assassino dell’appuntato Alessandro Giorgioni (luglio 2004). «Gangster atipico, quasi un barbone, ma rapidissimo nell´usare la Colt 38. Un uomo che ancora ragazzo era già un problema. Il "lupo solitario" era "un ragazzo terribile". Lo ricordano così a Montefalco, "paese d´arte" in provincia di Perugia, dove abita la madre, vecchia e malata, che si dice voglia chiedere scusa alla famiglia di Giorgioni per il lutto di cui è colpevole quel figlio perduto. "Una testa calda" è "il lupo" quando ancora sta crescendo. "Faceva quel che voleva, quel che gli passava per la testa", dicono in paese. A scuola va male in condotta, da adolescente irrequieto qual è, fa scoppiare risse e poi finisce dentro al "minorile" di Firenze, per aver rubato l´auto a un invalido ed essersi arreso solo dopo un concitato inseguimento. Non ce la fa proprio a impegnarsi in un lavoro, come quello di falegname. proprio il carattere riottoso, selvatico che lo fa lentamente diventare un solitario, allontanato da tutti. Quando sarà un bandito, sarà per primo lui a non volere tanta gente tra le scatole. Ha avuto solo un sodalizio con una donna di Foligno di 33 anni, a lei ha fatto spazio nella sua vita oltre alla Colt per fare rapine. Sei anni insieme, poi lei lo lascia "perché era troppo violento e mi metteva le mani addosso". Uno che promette e ripromette, ma non cambia mai. Il sindaco di Montefalco Valentino Valentini: "Diceva spesso che il suo unico desiderio era di fare una vita tranquilla". Ma proprio tranquilla no. Prima di arrivare tra i valloni e i calanchi di Pereto di S. Agata Feltria, dove va a fare una telefonata diretta a chissà chi in un paese asiatico, la sua carriera criminale è già lunga. Costruita spesso con l´uso di moto potenti, come la Yamaha che aveva a Pereto. Si conquista il soprannome di "lupo" perché è solitario e di "cinghiale" un po´ per l´aspetto possente, un po´ per l´abitudine a passare lunghi periodi in luoghi impervi, dove fa perdere le tracce, dormendo in casolari abbandonati, in grotte o sotto gli alberi e mangiando quel che trova e bevendo negli abbeveratoi come le bestie. Ma dorme anche dentro i furgoni che ruba per nasconderci le moto e la sua abilità nel mimetizzarsi e cambiare aspetto la sfoggia anche nelle città. La sua carriera comincia con l´accusa di aver rubato opere d´arte, ma il suo forte sono le rapine agli uffici postali. [...] Sempre con la 38 special in pugno. L´escalation di violenza comincia il 19 febbraio del 2002, quando all´inizio della latitanza spara alla testa di un benzinaio di Todi, Fausto Gentili, salvo per miracolo, colpevole di aver seguito l´auto che Liboni aveva rubato a una sua amica. Un mese dopo con un Transit che nasconde una enduro rubata non si ferma all´alt della Finanza sull´Aurelia. Si imbottiglia da solo nel traffico di Civitavecchia, spara ai militari, si fa scudo di passanti e rapina un´auto per sparire. Freddo, deciso a tutto, sfugge anche il 3 luglio 2004, quando a un posto di blocco vicino a Guidonia ferisce di striscio un carabiniere di Tivoli che gli chiede i documenti. Ma lui i documenti non li può dare a nessuno. Quello che presenta all´ospedale di San Piero in Bagno, in Romagna, per l´incidente avuto in moto il giorno prima della morte di Giorgioni, è falso. Quello che mostra alla polizia di Praga [...] lo porta in carcere per quattro mesi, ma è già fuori quando l´Interpol capisce chi è» (l. s., "la Repubblica" 25/7/2004). «La sua storia sui giornali è cominciata solo quando la signora del Bar Cicconi ha guardato i suoi occhi. Erano quelli di un piantagrane, ha pensato. Aveva l’aria lercia, brutti vestiti, puzzava come un cane. Per quello ha chiamato i carabinieri: non si fidava di quello sguardo. "Ha la mano destra fasciata", ha detto. In caserma hanno sfogliato i faldoni. C’era un ricercato appena scappato da un ospedale con tre dita rotte alla mano destra: Luciano Liboni, 47 anni, una vita da sangue freddo, come quelle di Richard Eugene Hickock e Perry Edward Smith raccontati da Truman Capote, in giro per un posto senza saper dove andare, un rancio, una birra gelata, una sigaretta e la pistola con il colpo in canna. Quelli così prima o poi uccidono per uccidere, anche per morire. I carabinieri partirono per un controllo e lui sparò a bruciapelo uccidendo Alessandro Giorgioni, 36 anni. Quando fecero il suo nome, i cronisti cominciarono a chiamare dall’Umbria. C’era una della "Nazione", Erika Pontini, che insisteva più degli altri: con che pistola ha sparato? Una 38, le dicevano. E lei: una revolver 38 con il calcio cromato? "Non sappiamo". Quell’arma era da un pezzo che saltava fuori, assieme a Liboni, sempre con il colpo in canna, tra una rapina e l’altra e poi da Ponte San Giovanni, quando lui era diventato un super-ricercato, e uno degli inquirenti gli aveva affibbiato il suo nuovo soprannome. "Questo non è uno normale", aveva detto. "Si muove in maniera strana, non si appoggia mai a nessuno, non ha una casa, un amico, niente. Sembra che viva nei boschi, sotto alla luna. Fa i colpi e non va dai ricettatori, non frequenta la mala. Questo è un Lupo Solitario". Ecco come lo chiamarono da quel momento: Lupo Solitario. Quella volta a Todi aveva rubato una macchina, una Polo bianca, a una donna, e un benzinaio, Franco Gentili, 38 anni, aveva riconosciuto l’auto della sua amica, mentre stava andando sulla statale assieme alla moglie e al figlioletto. Aveva chiamato il 113 e gli si era messo dietro dettando le coordinate. A Ponte San Giovanni l’aveva accostato a un semaforo, cercando di far finta di niente. Ma Liboni doveva essersi accorto di tutto. Aveva tirato giù il finestrino e aveva fatto fuoco con la sua 38 con il calcio cromato. "Mi ricordo quegli occhi spalancati, quello sguardo come un matto. E’ stato un secondo che mi è rimasto impresso per sempre", ricorda Gentili. "Ho fatto solo in tempo a vederlo". Il colpo aveva sfiorato la donna e colpito alla testa il benzinaio. Bastò la descrizione dei testimoni per riconoscerlo. Era il 19 febbraio 2002. Lupo Solitario era appena uscito dal carcere, dove era stato rinchiuso nel luglio dell’anno prima per storie di droga e di rapine. Sei mesi dentro e decorrenza dei termini, quelle cose che capitano in Italia, per cui si sta in galera chissà per quanto dopo una cretinata o un errore, magari un guasto alla burocrazia, e i professionisti della mala se ne vanno fuori subito fra un cavillo e l’altro. E’ l’inizio della latitanza: da questo momento spara a tutti quelli che gli si avvicinano. Ma prima non è che avesse regalato fiori. Luciano Liboni è nato nel ’57, il 6 maggio, segno del Toro, a Montefalco, vicino a Foligno. Comincia presto una vita da bullo. A 12 anni è sospettato di piccoli furti, a 14 "è già noto nella zona come un attaccabrighe che è meglio lasciar perdere", come raccontano in paese. A 16 anni ruba la prima auto, a 17 finisce nel carcere minorile a Firenze, e quelle prigioni non sono robe da rieducazione: sono scuole di violenza. Quando esce fa una bella collezione di risse e di botte, nelle discoteche, per strada, nei parcheggi. Picchia i compagni, gli automobilisti, chiunque prova solo ad alzar la voce per un motivo qualsiasi. Ricordano: "Strabuzzava gli occhi, sembrava un matto". Sempre quegli occhi. A 19 anni litiga con un dipendente comunale e lo manda all’ospedale. Un vigile lo rimprovera per un parcheggio e lui non se lo fa dire due volte: gli spacca la faccia e gli rompe il naso. Colleziona denunce, ma nient’altro. Fa il falegname in quel tempo. E lo fa bene: lo ripetono tutti in paese. Nel 1980 sposa una ragazza svizzera, e ci sta qualche anno assieme: il tempo di fare un figlio. Poi preferisce la sua vita da randagio, prende e se ne va. Lei torna in Svizzera, nel Canton Ticino, con il bimbo. Lui comincia a girare l’Italia. Forse è in questo periodo che si avvicina alla droga, o forse dopo, quando incontra Francesca Toppetti, alla fine degli Anni ’90. Adesso fa ancora il falegname, anche se in maniera saltuaria. Soffre di attacchi di epilessia. Sparisce e ritorna. Nel ’90, il 14 marzo, è sospettato per una serie di furti d’opere d’arte avvenuti in Umbria, Lazio e Toscana. L’indagine non va oltre quel sospetto, però è da questo momento che lui entra nel mirino di carabinieri e polizia. Dal ’98 comincia a far rapine con Francesca Toppetti, 33 anni. Sono tossicodipendenti, scrivono i giornali. Vanno avanti per tre anni con una parentesi in una comunità di recupero. Liboni la interrompe a modo suo: cerca di violentare un’operatrice, che si mette a urlare disperata fino a quando non arrivano gli altri a salvarla. La violenza dev’essere il suo destino. Lo mandano via. E riprende le rapine. Nel 2001 l’arresto. Carcere di Perugia. Lo va a trovare suo figlio, che non lo vedeva da un pezzo. Lui va fuori nel 2002. Adesso la sua vita cambia. Si mette a correre come i suoi occhi, spalancati. E’ uno che sembra vivere come Dick Hickock: "Mi vergogno più di quello che non ho detto e che ho fatto che di venire impiccato. E’ un impulso dentro di me". Il 19 febbraio ferisce Gentili alla testa. Il 30 marzo, a Civitavecchia, a un posto di blocco della Finanza, fa fuoco prima ancora che loro possano chiedere i documenti: 3 agenti feriti. Scappa all’estero. Lo arrestano a Praga. Prima che arrivi il mandato di cattura internazionale è già tornato libero. E’ di nuovo la burocrazia che lo salva. La stessa burocrazia che gli riconosce una pensione d’invalidità per gli attacchi di epilessia di cui soffre. Torna in Italia, furti e rapine, e una vita nei boschi con il sacco a pelo. Non si lava quasi mai, puzza. Ha la passione per le moto, ne ruba un bel po’ e le tiene dentro a un furgone bianco, che non è registrato, come un garage. A un altro posto di blocco sulla Tiburtina, a Sette Camini, fra Roma e Tivoli, spara e ferisce un carabiniere prima di scappare. Poi, girando su una delle sue moto, finisce fuori strada a Sarsina, sopra Cesena. Frattura del setto nasale e tre dita della mano destra rotte. Lo ricoverano a Bagno di Romagna, con il nome riportato dalla sua patente: Franco Franchini. Nessuno si accorge di niente. Fa tempo a uscire e a riprendere la sua vita. Così arriva al bar Cicconi, vicino a Pesaro. Lo frega il suo sguardo, che parla come Hickock. "Non posso chiedere perdono. Sarebbe senza senso. Ma se volete, lo faccio"» (Pierangelo Sapegno, "La Stampa" 25/7/2004). «[...] suo figlio, un ragazzo che oggi dovrebbe avere vent’anni e vivere in Svizzera con sua madre, quella ragazza che un giorno arrivò a Montefalco e si innamorò di Luciano, ma solo per il tempo di concepire un bimbo e di tornare tra le sue montagne. Le sue sorelle non le vede da troppo tempo. Tutte e due sposate, una all’estero, forse in America, hanno tutte e due troppo desiderio di una vita normale per voler avere rapporti con Luciano. Con suo fratello Giancarlo, invece, il "lupo" non parla dal 1998, da quando lui decise di denunciarlo per "taglieggiamento". Taglieggiava la pensione della madre, Luciano, ma mamma Giuliana ha continuato a tenerlo in casa, lui con Francesca e le loro esistenze disperate, dove insieme alle rapine c’era anche la droga. C’è un altro fratello nella famiglia Liboni, un ragazzo più giovane di Luciano che ha lasciato la sua esistenza in un ospedale psichiatrico, lui come uno zio, giurano adesso i vicini di casa di Montefalco che non hanno mai smesso di vociferare sulla stranezza di un famiglia dove anche la madre vedova dicono abbia dato segni di squilibrio mentale. Ma adesso è troppo facile dirlo» (Alessandra Arachi, "Corriere della Sera" 25/7/2004).