v, 21 luglio 2004
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KLEIBER Carlos. Nato a Berlino (Germania) il 3 luglio 1930, morto a Konjsica (Slovenia) il 13 luglio 2004
KLEIBER Carlos. Nato a Berlino (Germania) il 3 luglio 1930, morto a Konjsica (Slovenia) il 13 luglio 2004. Direttore d’orchestra. «Nato nel 1930 a Berlino da Erich Kleiber, a sua volta grandissimo direttore d´orchestra. Un dato curioso, che sembra imprimere anche nei casi della vita di Carlos la singolarità della sua intelligenza (ma anche della sua nevrosi: un complesso di Edipo colossale), è il fatto che facesse il suo debutto britannico al Festival di Edimburgo, nel 1966, dirigendo il Wozzeck di Alban Berg, l´opera di cui suo padre Erich aveva diretto la prima mondiale a Berlino nel 1925. Il confronto, si dovrebbe dire duello, si ha anche nelle registrazioni: incide un Franco Cacciatore, che supera quello pur bellissimo di suo padre. Si può essere un "enfant terrible" a 65 anni, si domandava nel 1995 il "New York Times". Si può. Ma la singolarità di Carlos Kleiber stava in una sorta di ossimoro interpretativo: le sue interpretazioni sono simultaneamente intellettualissime e passionali. Nel 1935 la famiglia Kleiber emigra in Argentina, per sfuggire al nazismo. A Buenos Aires avviene la sua prima educazione musicale. Il mondo cosmopolita della capitale argentina lo stimola molto: rifugio di molti ebrei tedeschi e dell´est europeo, Carlos, ebreo anche lui, vive nello stesso ambiente culturale da cui vengono Daniel Barenboim (di 12 anni più giovane), per esempio, e Luis Bacalov e dove, non si dimentichi, vivono scrittori come Borges, Bioy Casares, Cortázar. Ebbe la nazionalità argentina (i nazisti gli avevano tolta quella austriaca), che conservò fino al 1980, quando riprese quella austriaca. Il suo debutto come direttore è avvenuto nel 1952 a La Plata, nel teatro della città, a sud di Buenos Aires. Suo padre, che non voleva che facesse il musicista, lo manda però a studiare chimica a Zurigo. Ma lì Carlos, invece, dal 1964 al 1966 è direttore dell´Opera. Dopo Zurigo va a Düsseldorf e Stoccarda e nel 1968 a Monaco. Il debutto tedesco era avvenuto nel 1954 a Potsdam. A Vienna debutta nel 1973, a Bayreuth, l´anno seguente. Diventa famoso. Fama che però egli non sfrutta, anzi sembra capricciosamente e caparbiamente rifiutare, tanto sono rare le sue apparizioni. L´ostinazione con cui a Edimburgo sceglie proprio Wozzeck, l´opera diretta la prima volta dal padre, rivela l´origine della sua nevrosi: la competizione con la figura paterna. Erich era un genitore duro, severo, un vero padre-padrone che ha sempre contrastato la passione del figlio per la musica, oltretutto non perdeva occasione per umiliarlo davanti agli altri. L´intransigenza del figlio Carlos, la sua puntigliosità, come quando nel 1987, fa dare dalla Scala il benservito a Bruson, per divergenze interpretative nascono sì dal bisogno di andare fino in fondo, prendere sul serio la partitura e non il narcisismo dell´interprete, soprattutto se cantante, ma probabilmente anche da questo essere sempre ai ferri corti con la figura paterna. Sono comunque i concerti e le rappresentazioni di Monaco, di Vienna e Bayreuth che lo collocano tra i massimi interpreti di un repertorio ristrettissimo, ma dal carattere assai variato. Carlos è straordinario tanto nel Pipistrello di Johann Strauss jr. che nel Cavaliere della rosa di Richard Strauss, nel Tristano di Wagner e nella Traviata di Verdi. Ma alcune interpretazioni, più che memorabili restano uniche: il Tristano di Bayreuth, appunto, Il Cavaliere della rosa di Monaco e di Vienna, l´Otello della Scala. Non meno affascinanti le sue interpretazioni beethoveniane, il pubblico di Santa Cecilia a Roma ricorda ancora con le lacrime il suo indimenticabile Beethoven. In Italia, l´ultima volta è venuto nel 1999, a Cagliari. Per i Wiener Philharmoniker, Kleiber è stato il "direttore ideale", alla pari di Toscanini, Fürtwangler, Böhm, Karajan e Bernstein» (Dino Villatico, "la Repubblica" 20/7/2004). «Un destino rarissimo: quello d’essere figlio d’arte, nato da Erich, uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, e di aver forse superato il padre nell’eccellenza della professione. La sua figura aleggiava ultimamente come un mistero nella coscienza del mondo musicale. Considerato l’eccelso tra i direttori d’orchestra, era divenuto impossibile sentirlo: negli ultimi dieci anni i suoi impegni si erano sempre più rarefatti, sino al silenzio completo. Ogni tanto dava un concerto, disertando i grandi teatri. Nelle capitali della musica i cartelloni erano chiusi da tempo e lui, quando la necessità premeva, accettava inviti in luoghi decentrati, Ingolstadt, Lubiana, Ravenna, Santa Cruz de Tenerife, Valencia, Cagliari: i biglietti andavano a ruba e gli appassionati accorrevano per godere emozioni e bellezze quasi sempre impareggiabili. Carlos Kleiber era nato a Berlino, nel 1930, ma crebbe in Argentina, dove il padre Erich si era volontariamente esiliato per protesta contro il nazismo. Dopo la guerra fu spedito in Svizzera a studiare chimica, ma il suo straripante talento musicale ebbe la meglio e il giovane Carlos proseguì contemporaneamente lo studio della musica, sino al debutto come direttore d’orchestra, a Potsdam, nel 1954. I primi anni lo videro lavorare in teatri minori, poi a Düsseldorf, Zurigo, Stoccarda, sino alla fine degli anni 60 quando, a poco a poco, la sua personalità giunse alla ribalta del mondo musicale per rifulgere negli anni 70 con le grandi produzioni operistiche a Monaco e a Vienna, alla Scala, al Covent Garden al Metropolitan e a Bayreuth. Otello, La Bohème, Tristano e Isotta, Il Cavaliere della Rosa costituiscono alcuni dei ricordi indelebili delle stagioni scaligere dirette da Claudio Abbado e Paolo Grassi. Kleiber a Milano era di casa ed esercitava il suo magnetismo galvanizzante. Possedeva un gesto mirabile, ossia la capacità di trascrivere la musica con una fantasia che, al momento dell’esecuzione, trasformava in un’esplosione di vita l’accuratissimo lavoro di concertazione condotto durante le prove con maniaco perfezionismo. Sua specialità era l’equilibrio tra libertà e rigore. I "rubati" di Kleiber, vale a dire quei momentanei rallentamenti o fuggevoli accelerazioni che escono dalla regolare pulsazione ritmica, erano leggendari; ma non meno rara era la capacità di inserirli nel flusso del discorso musicale, senza romperne minimamente l’unità e la coerenza. Il risultato era un prodigio ritmico e fraseologico di cui solo lui deteneva il segreto in una misura così audace e tecnicamente smaliziata. L’effetto che produceva sull’ascoltatore era quello di una vera e propria ebbrezza, miracolosamente controllata, un empito danzante che si rifletteva nel suo gesto fantasioso e lieve, e che costituiva un fatto unico nel panorama dell’interpretazione contemporanea. Kleiber fu un grandissimo interprete di valzer viennesi, di operette, e di quella summa della danza come categoria dello spirito umano che è Il Cavaliere della rosa di Strauss. Ma l’elasticità ritmica, la libertà di fraseggio non si esaurivano in una brillantezza esteriore: gli servivano altrettanto bene per scavare negli abissi notturni del Tristano, nelle turbe psichiche di Otello, nel mistero naturalistico del Franco Cacciatore. Tre opere amatissime, come le poche altre di un repertorio molto ristretto, segno anche questo di un rapporto tormentato, difficile, sempre profondamente sofferto con la propria arte: quattro sinfonie di Beethoven, due di Brahms, due di Mozart, una di Schubert, un poema sinfonico di Strauss erano i testi che riproponeva, tra silenzi sempre più lunghi» (Paolo Gallarati, "La Stampa" 20/7/2004). «Bellissimo uomo, ma più affascinante ancora che bello per il gran tratto signorile e i lampi indecifrabili, inquietanti, degli occhi, era stato per tutta la vita dominato dall’eros. Aveva bisogno di donne; invecchiando, di ragazze. Però s’era tenuto sempre la così ordinaria e modesta mogliettuccia slovena; da lei s’era rifugiato, lasciandosi andare in pantofole davanti alla televisione, i denti che gli cadevano, una sorta di acre voluttà oblomoviana entro di Lui: l’ultima ragazza l’aveva abbandonato [...] Come tutte le anime intimamente tragiche, era un formidabile battutista e calembourista. [...]la storia di uno sconfitto: di un eroe, gloriosissimamente sconfitto ma sconfitto. E di un eroe moderno per definizione; non tutto d’un pezzo, non di statura titanica. Troppo complesso l’animo Suo, troppo morboso, a volte, il Suo pathos, troppo profonda la ferita misteriosa aperta e stillante ogni giorno sangue entro di Lui. "Le secret douloureux qui me faisait languir" del Sonetto di Baudelaire. Si disse di Forster che il suo prestigio cresceva per ogni Romanzo che non scriveva. Non è una battuta affermare che quello di Carlos Kleiber cresceva quanto meno Egli montava sul podio. Il mistero della riluttanza, fosse un perfezionismo ai confini del patologico, fosse nascosta insicurezza, fosse tedio, non faceva che accrescere un’attesa spasmodica. Sicché, superato il solo periodo della Sua vita, diciamo dalla metà degli anni Settanta, nel quale Egli ebbe, quantitativamente parlando, una vita d’interprete quasi normale, ogni suo concerto, ogni Sua recita operistica rappresentavano un tale sfogo di quest’attesa spasmodica che l’esito ne sarebbe stato comunque trionfale, a prescindere dalla qualità. Va detto che [...] è montato sul podio con esiti o altissimi o alti: mai diversi da questi. Poi incomincia il periodo del negarsi, del volere e disvolere, insieme col bisogno del "late biòsas", del "vivi nascosto". Nulla ciò ha da fare con l’imperativo filosofico. Qualcosa di morboso e misterioso insieme è nel di Lui sottrarsi alla curiosità altrui col rifugiarsi nella casetta popolare nella periferia di Monaco. O è sublime indifferenza? O è bisogno di punirsi? Di certo, Egli avrebbe potuto guadagnare somme incommensurabili e nascondersi dietro mura recintanti parchi, ville e piscine. Il tedio. A questo non si pensa forse abbastanza. Kleiber era una fascio di contraddizioni. Non poteva non amare la musica in una maniera intensa e dolorosa, alla Tonio Kröger, ma ben poteva a volte odiarla, e capiremo il perché, a volte provare per lei un tedio infinito. Non solo per la patologica ristrettezza del Suo repertorio, che rappresenta una delle Sue oggettive sconfitte. Altro è studiare nuovi capolavori, abbandonarsi all’emozionante gioia della scoperta [...] Altro è ripetere quelle sette, otto Sinfonie, quei cinque, sei titoli di teatro musicale. Da un lato tu sai di essere troppo bravo, sai che non ti si richiede alcuno sforzo per ottenere un risultato che va già ultra petita. Rovesci concezione e pensi che hai un tuo, personalissimo rapporto con ciascuno di questi pezzi musicali: e li valuti collocandoli così in alto da sapere che per quanti sforzi tu possa fare per una vita intera non arriverai ad accostarti nemmeno lontanamente a ciò che tu ritieni l’ideale esecutivo di ciascuno di loro. Ed ecco la radice dell’odio. Sembra un [...] elegante paradosso: in realtà i due sentimenti coesistono spessissimo in ciascun artista, in Lui dovevano a un grado estremo, distruttivo. E allora Egli pensava al secondo aspetto: alle notti insonni, campeggiando in Lui l’angoscia, nelle quali il tempo si divideva in frazioni sempre più lunghe mentr’Egli si interrogava sul come e sul perché di una cellula tematica, di una battuta: trovava dieci soluzioni ciascuna valida quanto le altre, ma a Lui era commessa, quel momento fatale, la scelta. Poi vedeva gli altri, vedeva ch’erano proseguiti imperturbabili sul terreno della routine, impermeabili a interrogativi e dubbi. Vedeva che le reazioni del pubblico e della critica erano le medesime; peggio, si convinceva ch’era giusto fosse così. Allora il tedio apriva in Lui le sue grigie ali immense: tanto, è lo stesso... Poi, entro di Lui continuava a vivere il vecchio Laio. Si chiamava Erich Kleiber. Era stato uno dei più celebrati direttori d’orchestra dei suoi tempi. Alla sua gloria nulla era mancato. L’immensità del repertorio. La sicurezza in se stesso.
L’appartenere alla parte giusta, sempre, sia nelle prese di posizione artistiche che politiche. Aveva diretto innumerevoli prime esecuzioni assolute mentr’Egli, Carlos, credo, nessuna. Era la precisione, la perfezione, appena lievemente burocratiche. Era Suo padre. Nelle Sue terribili notti, Carlos non riusciva più a ricordare se una volta, a quel quadrivio, l’aveva davvero ucciso, ovvero se dal cocchio Laio gli aveva riso in faccia con quella così tedesca e secca risata ritmata, quella del Capitano del Wozzeck , dicendogli che mai Carlos riuscirebbe a provocargli nemmeno una scalfittura. Quando ricordava di averlo ucciso, il ricordo si scindeva a sua volta in due corni terribili: uno portava un immenso senso di liberazione al quale sarebbe dovuta seguire la coscienza che ormai a Lui, Carlos, nulla era più vietato, nulla impossibile, nella direzione d’orchestra; l’altro era segnato da un rimorso che si tramutava in paralisi. La congerie di paralisi vinse. Carlos sul podio era più grande del vecchio, cattivo, Laio, questo l’hanno compreso tutti: ma girava sempre in un circolo destinato a diventare vizioso. Qualità d’intuizione, di sensibilità, di analisi, di gestualità, di fraseggio, di scoperta del quid rivelatore, insomma di genio potenzialmente superiore a tutti gli altri, apparivano come un miracolo a chiunque, dirigesse Egli il Tristano o Il cavaliere della rosa o La Bohème o l’Otello, le Sinfonie di Beethoven, nemmeno tutte, o quelle di Brahms. V’era tuttavia un che di febbrile a fianco di quel sublime autodominio che sul podio sapeva trovare. Questo che di febbrile t’infondeva una leggera angoscia, quasi tu comprendessi che il Maestro avesse l’incubo di non portare a termine l’esecuzione, magari perché Laio si sarebbe materializzato prendendoGli di mano la bacchetta e continuando lui. Perciò dico che nel Suo pathos v’era talvolta un quid di morboso. Aggiungo: non sempre la qualità suprema dell’esecuzione,
l’equilibrio assoluto dei rapporti era da Lui attinta. Aggiungo ancora: in Beethoven pochi hanno inteso dalla Sua bacchetta scaturire una maggiore energia, una maggior potenza esplosiva. Ma non v’è, se si pensa all’Introduzione della Quarta e della Settima , quel "senso del vasto spazio" che le fa essere ciò che sono. E a volte esecuzioni curatissime vedevano sovrapporsi come un geniale elemento improvvisatorio al piano sintetico. [...] direttore dei Valzer, delle Polche, dei Galops e delle Marce degli Strauss nel miracolo del Concerto di Capodanno. Dirigeva questi pezzi come ciò che sono, grandissima musica, ma insieme con una sprezzatura del gesto fatta di anticipi, "rubati" strepitosi, di cessazioni della battuta, e soprattutto d’una tale compenetrazione fisica con quei ritmi che sembrava vederlo librarsi a un metro da terra. Le registrazioni che ne restano di per sé sanciscono il loro scaturire da un genio della bacchetta: da un genio che, forse, per una volta, provò una strana gioia a farsi tutt’uno coi ritmi e le melodie. [...] Era più grande del padre, ma ha sempre vissuto soffrendo per il confronto con il vecchio Erich» (Paolo Isotta, "Corriere della Sera" 21/7/2004).