Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  luglio 20 Martedì calendario

Biografia di Ambrogio Fogar

• Milano 13 agosto 1941, 24 agosto 2005. Nel ”70 lancia la moda della vela in solitaria. Nel ”73 fa il giro del mondo in barca a vela. Poi, nel ’78 il drammatico naufragio: 74 giorni alla deriva. Negli Anni 90 il passaggio ai rally. Fino al 12 settembre del ”92 in Turkmenistan, quando la sua jeep si ribalta sulla pista fra Parigi e Pechino. « stato un uomo molto coraggioso ma anche molto controverso. stato coraggioso perché in tutta la sua vita si è buttato a capofitto in imprese che altri italiani non avevano tentato, con ciò facendo sognare più di una generazione di persone che si avvicinavano in quegli anni al mare e volevano compiere grandi imprese sui sette mari come già avevano fatto navigatori francesi, inglesi e di altri paesi. Ma di impresa in impresa, bisogna dirlo, Fogar si rivelò anche un maestro nell’arte di comunicare, di suscitare interesse, di creare misteri, di richiamare l’attenzione, insomma riuscì sovente anche a fornire spunti per molte critiche. Quando alla fine degli anni ”60 partì da Castiglion della Pescaia, già allora amena località della Maremma, con il suo Surprise, una barca a vela di 12 metri, per compiere il giro del mondo in solitario, finì col creare un vespaio di polemiche. Partì e sparì. Non si sapeva dove diavolo fosse finito. Non c’erano i telefonini, le radio di bordo erano ancora aggeggi primordiali degni dell’epoca di Marconi, e lui sparì. Gli unici contatti riusciva a tenerli con i radioamatori sparsi nel pianeta e così di tanto in tanto amici e giornalisti ricevevano una telefonata. ” davanti all´Argentina” si tirava un sospiro di sollievo, poi ”ha passato Capo Horn” e tutti si rilassavano, poi un contrordine ”non ha passato Capo Horn, è nella tempesta” giù tutti a piangere. Riuscì a tornare a casa in una notte di dicembre gelida a Castiglione dov’erano arrivate più di diecimila persone per riceverlo. Ma nessuno poté vederlo o toccarlo perché aveva venduto il servizio a un noto settimanale. Roba che oggi fa ridere, ma allora no. Girò poi l’Italia tenendo conferenze su questo leggendario viaggio e scrisse un libro dove finalmente tutti trovarono la risposta al presunto e misterioso naufragio, alla misteriosa sparizione, al misterioso tutto. ”Stavo leggendo un libro in coperta nel pieno dell’oceano Pacifico quando un’orca sollevò la barca facendo un buco nella carena”. Non gli mancava il coraggio ma neppure la fantasia e neanche l’entusiasmo con cui del resto ha vissuto tutte le sue imprese. Ne combinò un’altra partendo per la Ostar, la regata transatlantica per solitari, a bordo di un piccolo catamarano di 7 metri senza cabina. Chiuso in una tuta stagna nella quale avrebbe dormito, si sarebbe riscaldato e avrebbe fatto anche la pipì. Lui resse allo sforzo immane ma la barca no e si ritirò alle Azzorre suscitando altre polemiche. Cambiò genere e con una slitta trainata da cani partì per fare la traversata dell’Artico e raggiungere il Polo Nord. Forse la più difficile di tutte le sue imprese. Partì con la slitta e i cani, tornò con un aeroplanino da turismo e un solo cane, il famoso Armaduk. Perfino i giornali che lo avevano sponsorizzato cominciarono a prendere le distanze dal controverso personaggio. [...] Anche l’ultima delle sue imprese marittime, il viaggio in Antartico insieme al giornalista fiorentino Mauro Mancini, che era cognato dell’allora sostituto procuratore della Repubblica Pier Luigi Vigna, finì male. Un naufragio misterioso, anche quello, 74 giorni alla deriva nell’Atlantico del Sud su una zattera autogonfiabile. Il salvataggio da parte del mercantile greco ”Master Stefanos”, la morte di Mancini a bordo della nave, il ritorno in Italia. Anche le sue avventure letterarie, perché di libri ne ha scritti, suscitarono polemiche e critiche feroci. La Mursia pubblicò un libro in cui frase per frase si dimostrava come Fogar avesse copiato interi paragrafi e pagine da altri libri. Lo abbandonarono in molti e lui dopo una brillante parentesi televisiva in cui raccontava di avventure terrestri, partì per il penultimo dei suoi viaggi, in auto verso la Cina. E strada facendo per un semplice masso che fece ribaltare la sua auto rimase paralizzato passando quasi quindici anni in un letto fra indicibili sofferenze. Faceva fatica perfino a parlare con un microfono ma era sempre lucido, appassionato, entusiasta a pronto a ripartire. In queste condizioni volle infatti ripartire un giorno per un giro d´Italia a vela. [...]» (Carlo Marincovich, ”la Repubblica” 25/8/2005). «Guarda un soffitto con le nuvole che non si muovono mai. Gli hanno dipinto il cielo in una stanza, sogna la luna e il mare inchiodato in un letto, le gambe sono rigide, come le braccia e la schiena, la faccia si è gonfiata e i suoi occhi ogni tanto chiedono aiuto: se vuole piangere, qualcuno deve asciugargli le lacrime, se legge, non volta mai pagina da solo. Respira con una macchina che ogni sei secondi manda un segnale al suo diaframma, così ha ripreso a parlare e a dare impulsi vocali anche a un computer. "Prima di dormire prego – sussurra – e questo mi aiuta a resistere". Resistere è l’impresa più difficile della sua vita, quella nuova [...]. Deve resistere alle cure, alla sedentarietà forzata, allo strazio, alle notti insonni, alle rinunce, alle emozioni perdute, al senso di sfiducia che gli fa dire ogni tanto "che cosa ci faccio qui". L’uomo che girava il mondo in barca a vela e voleva raggiungere il Polo Nord con il cane Armaduk, è aggrappato a un filo che a volte sembra invisibile. La sua solitudine non è più quella del navigatore che scruta l’orizzonte a bordo del "Surprise", la mitica barca affondata da un’orca, dei settantaquattro giorni di naufragio con la morte dell’amico Mauro Mancini: del freddo di coperta, che gela la faccia in mezzo all’oceano, il suo corpo non sente più nemmeno i brividi. La solitudine di Fogar è quella di un tetraplegico che dalla testa in giù non segue i comandi del cervello, dipendente per tutto dall’amore e dall’affetto di qualcuno, dalle tecnologie che aiutano a non essere tagliato fuori dal mondo, dai sanitari che devono incoraggiarlo a non lasciarsi andare. Dal settembre del ”92, quando la sua jeep si ribaltò sulla pista del raid Parigi-Mosca-Pechino, nel deserto del Turkmenistan, Fogar è imprigionato in un corpo immobile, deve essere assistito, lavato, vestito, pettinato e imboccato; la lesione al midollo spinale per ora non è una patologia curabile, l’unica terapia è accettarsi, lottare, evitare il peso dei ricordi e la disperazione per qualche abbandono. dura immaginarsi così, passare dalla normalità alla dipendenza assoluta. Fogar ha imparato a guardarsi dentro, a contenere la sofferenza. Da anni può parlare con uno stimolatore frenico, una specie di pacemaker che attiva con una scossa la sua voce. Nella disperazione, è stato un grande salto di qualità. "All’inizio ho pensato molte volte di morire, ho pregato le mie sorelle di portarmi in Olanda per farla finita. difficile accettarsi quando non sei più quello di prima: ogni impulso è una frustata, ogni desiderio una ferita, nelle mie condizioni devi chiedere aiuto anche per grattarti il naso". Il giorno dell’incidente Fogar aveva 51 anni: lesione midollare con frattura composta del dente dell’epistrofeo, ricoveri al San Raffaele, in Svizzera, in Francia, a Legnano, al neurologico Besta, bollettini simili, verdetti che annientano. [...] è un miracolo umano, un sopravvissuto che può insegnare la speranza ai duemila sfortunati vittime di lesioni midollari all’anno in Italia, un caso clinico che dimostra come si può convivere con un handicap gravissimo. " la forza della vita che ti insegna a non mollare mai, anche quando sei sul punto di dire basta – spiega – . Ci sono cose che si scelgono e altre che si subiscono. Nell’oceano ero io a scegliere, e la solitudine diventava una compagnia. In questo letto sono costretto a subire, ma ho imparato a gestire le emozioni e non mi faccio più schiacciare dai ricordi. Non mi arrendo, non voglio perdere...". il bicchiere mezzo pieno che Fogar vuole vedere nonostante la paralisi, "perché c’è una vita che continua e non posso dire che la mia sia noiosa o monotona". Da uomo che ha vissuto due volte detta memorie, collabora con la vecchia squadra di documentaristi, aiuta la raccolta di fondi per l’associazione mielolesi, fa il testimonial per Greenpeace contro la caccia alle balene, risponde alle lettere degli amici e sogna, sogna "di tornare a correre al campo Giuriati, quello della mia infanzia a Milano", o di ripetere il giro d’Italia su una barca a vela, "l’ho fatto già una volta, sei anni fa, con una sedia a rotelle basculante, ed è stato bellissimo". Racconta di sensazioni nuove, "mi piace quando mi accarezzano con gli occhi", e di come è riuscito a trovare un equilibrio dopo i momenti di depressione, "le mie sorelle, i miei collaboratori, i medici, non mi hanno mai fatto mancare il loro aiuto". [...] per Fogar questa è una sorta di nemesi: "Da bambino sfondavo i muri di casa con la fantasia, vedevo l’oceano e in mezzo c’ero io che navigavo". Un grande viaggiatore, avventuroso, spavaldo, guascone e controverso, costretto a restare fermo, immobile in un letto. Se non c’è l’evento, si finisce per dimenticarlo, perchè l’assenza porta a rimuovere una storia, una persona. E i tetraplegici che combattono per recuperare un corpo assente rischiano di diventare fantasmi nella società che non ammette stop» (Giangiacomo Schiavi, "Corriere della Sera" 20/7/2004).