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 2004  luglio 18 Domenica calendario

Racconta Dione Cassio che Giulio Cesare, quando si apprestava a diventare dittatore, volle dare un segno inequivocabile del modo inflessibile in cui intendeva la disciplina militare

Racconta Dione Cassio che Giulio Cesare, quando si apprestava a diventare dittatore, volle dare un segno inequivocabile del modo inflessibile in cui intendeva la disciplina militare. Siamo nel 46 avanti Cristo. Le truppe si erano ammutinate e protestavano per l’acquisto di tende di seta che dovevano impedire che il sole, durante i giochi, disturbasse gli spettatori. I soldati non avevano ricevuto un soldo e consideravano la spesa per il tendaggio superflua. Che cosa fece Cesare per punire i soldati? Ne consegnò uno al carnefice. Quindi diede ordine di ucciderne altri due secondo una ritualità particolare. Come scrive Dione Cassio, i soldati «furono sacrificati nel Campo di Marte» e le loro teste infisse alla Regia. Secondo Eva Cantarella, docente di diritto romano e greco alla Università di Milano e autrice del saggio I supplizi capitali in Grecia e a Roma (Rizzoli, 1991), l’ordine di Giulio Cesare traeva origine da una solenne cerimonia religiosa, il cavallo di ottobre, october equus, nel corso della quale una testa equina veniva tagliata e affissa al muro di un edificio pubblico, esattamente come nel caso dei soldati ribelli (per essere più precisi veniva tagliata anche la coda, e, ancora grondante di sangue, veniva deposta sull’altare per propiziare la fecondità, ma c’è anche chi sostiene che il termine cauda vada inteso nel senso gergale di pene). I romani, al pari di molti altri popoli antichi, erano dei cacciatori di teste, spiega Eva Cantarella. La testa decapitata di un nemico era un trofeo che doveva essere esibito, sulla sommità di un palo o tenuto con una mano, mentre tornavano al galoppo da una impresa vittoriosa. Naturalmente le fonti storiche registrano i casi in cui le vittime o i carnefici erano personaggi celebri e ignorano gli altri. Silla faceva portare al suo cospetto le teste insanguinate dei suoi nemici, quasi vive e ancora spiranti, per mangiarsi con gli occhi quanto non gli era concesso con la bocca, come racconta Valerio Massimo. Ancora Valerio Massimo racconta che Caio Mario «tenne lietamente tra le mani, durante un banchetto, la testa recisa di Marco Antonio. Mostrandosi oltremodo intemperante nell’animo e nelle parole, lasciò contaminare la santità della mensa con il sangue di quell’illustrissimo cittadino e oratore e giunse a abbracciare Pubblio Anneo, che gliel’aveva portata, ancora lordo del sangue di quella strage». A parte questi episodi di grande efferatezza, era cosa del tutto normale esibire le spoglie nemiche. Nel 69 a. C., la testa di Lucio Calpurnio Pisone Liciniano venne condotta per la città in cima a una picca. Nel 62 a.C. la testa di Catilina venne inviata a Roma. Nel 45 a. C., a Munda, Giulio Cesare fece circondare i pompeiani di un cerchio di teste infisse su dei pali. Sulla colonna Traiana, nella quale sono scolpite sei teste recise, l’imperatore esibisce alle truppe la testa del re Decebalo, morto suicida ma pur sempre nemico sconfitto. Quello che sarebbe cambiato, nella pratica della decapitazione, era lo strumento. Al tempo di Augusto si continua a usare la scure, come al tempo di Claudio faceva il preside di Siria Quadrato. Ma ai tempi di Nerone la spada prese il dominio assoluto. Durante la persecuzione africana, alcuni cristiani vennero decapitati con la scure ma si trattò, come si può concludere dai toni in cui ne parla Eusebio, di un evento straordinario. «Animadveri gladio oportet, non securi», scriveva Ulpiano, «bisogna eseguire le sentenze capitali con la spada non con la scure». «Dapprima sotto la scure», conclude la Cantarella, «e poi sotto la spada, dunque, le teste dei condannati a morte caddero fino al termine della storia di Roma: in un primo momento sul Campo di Marte (per limitarci alle decapitazioni nella capitale), quindi sul Foro, e più tardi ancora sull’Esquilino, dove il teatro delle esecuzioni venne definitivamente spostato in età imperiale».