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 2004  luglio 19 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 19 LUGLIO 2004

«Non esiste alcun diritto alla pigrizia». Sono parole del cancelliere tedesco, e socialdemocratico, Gerhard Schröder, da anni alle prese con 27 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti che restano nelle fabbriche e negli uffici meno ore dei colleghi di tutto il mondo, eccezion fatta per i finlandesi. [1]

Gli europei lavorano meno degli americani, si dice. Ma non tutti gli europei sono uguali. Lo studio di Pietro Garibaldi (Bocconi) rileva che la prestazione annua per lavoratore occupato è in Italia di 1619 ore contro le 1724 degli Stati Uniti, ma anche, per esempio, le 1979 della Slovacchia. La retribuzione media è di 28 mila euro l’anno in Italia, di 34 mila in Francia, ma scende a 6 mila 30 in Slovacchia. «Lavorare meno, lavorare tutti» diceva un vecchio slogan della Cisl di Pierre Carniti. Oggi, ha scritto Ferruccio De Bortoli sulla ”Stampa”, dovremmo forse dire «lavorare di più per non lavorare in meno». [2]

In Germania ci sono 4 milioni e mezzo di disoccupati. L’Ifo di Monaco parla di una sistematica fuga del capitale dal Paese. Negli ultimi dieci anni l’industria tedesca ha creato all’estero oltre 2,5 milioni di posti di lavoro, mentre in patria la chimica Basf ne ha tagliati 34mila, la Siemens 60mila, e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo. Gli esperti della Deutsche Bank Research spiegano la penuria di investimenti in Germania con «gli esorbitanti costi del lavoro nel paese». [1]

Per questo, Ig-Metall è scesa a patti con la Siemens. Si tratta di un accordo entrato in vigore il primo luglio. Il sindacato metalmeccanico ha accettato, a parità di stipendio, il passaggio della settimana lavorativa da 35 a 40 ore, per un taglio dei costi stimato nel 14 per cento. L’abolizione di tredicesima, quattordicesima ed extra su straordinari e sabati lavorativi porterebbe i risparmi totali al 30 per cento. L’intesa, valida due anni, è limitata alle fabbriche di Bocholt (telefoni cordless) e Kampf-Lintfort (portatili), entrambe nel Nordreno-Vestfalia. In questo modo si sono salvati 4500 posti di lavoro altrimenti destinati all’Ungheria. Poiché sembra non ci sia altro modo per evitare delocalizzazioni massicce nei Paesi dell’Est, sono già partite le trattative per aumentare l’orario di lavoro in altre tre fabbriche (3000 operai). [3]

L’accordo può essere considerato sotto due angolazioni. Come ha spiegato Alfredo Recanatesi sulla ”Stampa”, una prima angolazione è quella sindacale. I singoli lavoratori e la loro organizzazione rappresentativa sono stati posti di fronte all’alternativa tra la perdita del lavoro e il mantenimento di quel lavoro a condizioni più sfavorevoli. Che i lavoratori e il sindacato, posti di fronte a secche alternative di questo genere, optino per mantenere una parte anziché perdere tutto è cosa talmente ovvia da non richiedere una parola in più. Qualche parola è opportuno spendere, invece, se si ipotizza una generalizzazione di questi casi particolari e la si indica come una politica, anche concertata, con la quale fronteggiare la concorrenza dei Paesi emergenti. [4]

La concorrenza dei Paesi emergenti è forte e aggressiva. Principalmente perché quei Paesi si trovano a uno stadio di sviluppo che l’Europa ha superato da parecchio tempo; uno sviluppo che va inteso sia in termini economici, diciamo di reddito pro capite medio, che in termini civili, pensiamo a protezione sanitaria e antinfortunistica, tutele sindacali, previdenza, difesa dell’ambiente ecc. [4]

Questa concorrenza viene presentata come divario di produttività. La quale non è, o non è solo, l’impegno che il lavoratore pone nel produrre la sua prestazione a fronte della retribuzione che percepisce, ma è soprattutto il risultato del livello di specializzazione, di qualità, di dotazioni tecnologiche e di capacità progettuali del sistema produttivo nel quale il lavoratore viene inserito e che determina il livello di benessere che il sistema produttivo è capace di assicurare. Per capirci, un contadino dotato di vanga sarà poco produttivo anche se si spezzerà la schiena, mentre sarà molto produttivo se gli si darà un trattore col quale lavorare anche poche ore al giorno; e se lo si lascia con una sola vanga non gli può essere rimproverato. [4]

Che in Europa ci sia un problema di produttività è fuori discussione. Ma si discute sulle cause. C’è chi lo imputa ai lavoratori, retribuzioni troppo alte e orari troppo brevi, e chi invece alla scarsa capitalizzazione del sistema, pochi investimenti, poca innovazione, poca ricerca. Per i primi si deve concludere che il nostro livello di benessere è troppo elevato e che la soluzione sta, appunto, nel lavorare di più e guadagnare di meno. Per i secondi, si deve concludere che sono le imprese ad aver investito troppo poco per poter offrire posti di lavoro più qualificati, più organizzati, più redditizi e dunque, più remunerabili. [4]

A sentire i primi, regrediremo dal livello di benessere materiale e civile che è stato raggiunto. [4] una sfida che si può anche perdere. Ma se, una volta accettata, fosse persa, secondo Recanatesi la ragione non sarebbe tanto che il tedesco, il francese, l’italiano hanno preteso di lavorare meno e guadagnare più di un cinese o di un ungherese, o anche di un portoricano negli Stati Uniti, ma che imprenditori capaci di farsi valere in condizioni cinesi o ungheresi non sono stati all’altezza di operare nelle condizioni più evolute che l’Europa ha saputo raggiungere. [4]

I francesi non sono messi meglio dei tedeschi. Il governo Raffarin sta studiando come riformare le 35 ore socialiste, la legge che per il leader degli imprenditori Ernest-Antoine Seillière costa 16 miliardi di euro all’anno. [2] Il problema è che due persone su tre, secondo un sondaggio dello scorso ottobre, sono soddisfatte e non vogliono cambiare le cose. [5] Il paradosso, ha spiegato Massimo Nava sul ”Corriere della Sera”, è che le 35 ore soddisfano l’impiegato pubblico, la media borghesia delle seconde case o le giovani coppie senza figli e fanno piangere, oltre agli imprenditori, gli operai con le rate e il mutuo da pagare. [6]

Finora la destra aveva paura di toccare le 35 ore. Giusto lievi correttivi, in particolare nelle piccole e medie imprese, dagli artigiani ai ristoratori, dove la riforma ha soltanto fatto lievitare i costi senza i benefici occupazionali per cui era stata concepita. Ma la destra francese sta cambiando pelle e Nicolas Sarkozy, l’uomo che vorrebbe guidarla, ha subito fatto sapere le sue idee: «Non è possibile che lo Stato spenda 16 miliardi l’anno per non far lavorare i francesi». [6]

Sarkozy è contro il modello Siemens. «Dire alla gente ”se non accettate di lavorare di più senza guadagnare di più, trasferiamo la fabbrica”, è un ricatto che non sarebbe accettabile da noi» ha fatto sapere. Propone piuttosto il cambiamento volontario e concertato, premiando chi sceglie un maggior numero di ore lavorative con un aumento salariale attorno al 10%. In effetti c’è un margine per aumentare i salari senza far salire il costo del lavoro: diminuire i contributi sulle ore supplementari. Uno non si ammala di più perché lavora 39 ore invece di 35 e con l’orario normale copre l’assicurazione per il rischio malattia. Questi risparmi permettono di finanziare gli aumenti di salario per chi lavora di più. La misura dovrebbe favorire i consumi e, quindi, i guadagni delle imprese. [6]

In Francia, però, il modello Siemens fa proseliti. Gli 820 dipendenti della Bosch di Vénissieux, messi davanti alla prospettiva di veder migrare la loro fabbrica in Boemia, hanno accettato di lavorare 6 giorni di più l’anno allo stesso stipendio, promettendo inoltre moderazione salariale per i prossimi tre anni. La Cfdt, principale sindacato del sito, ha approvato la proposta della direzione. Cgt e Fo sono contrarie, ma ammettono che anche i loro iscritti sono rassegnati a cedere al ricatto. Nei fatti, il governo intende annacquare poco per volta la riduzione del tempo di lavoro in tutto il Paese. [7]

Era facile prevedere che sarebbe finita così. Come ha scritto Gabriella Sartori su ”Avvenire”, bastava leggere la storia o, anche, limitarsi a sbattere il muso contro la realtà dei fatti. ”Fatti” sono la globalizzazione, che significa, inevitabilmente anche delocalizzazione. E appartiene al mondo dei ”fatti” quel miliardo e passa di cinesi che studiano e lavorano come pazzi, per non parlare degli indiani e dei coreani; e così dicasi, per restare nella casa europea, dei ”nuovi arrivati” ungheresi, slovacchi, polacchi. Tutta gente che lavora assai più di tedeschi, francesi, italiani per un salario molto inferiore. [8]

Servirebbe una cultura che valorizzasse, accanto alla sacrosanta rivendicazione dei diritti, anche quella dei doveri.
Che non si limitasse a parlare genericamente di ”solidarietà” verso i meno fortunati ma mettesse in evidenza anche la necessità dei sacrifici personali che comporta inevitabilmente il far posto agli ”altri”. Invece, scrive Sartori, per certo vocabolario dominante parole come ”dovere”, ”solidarietà concreta”, ”spirito di sacrificio” restano retaggio di culture ”religiose” sorpassate e oscurantiste, da cancellare nella modernità. [8]

Non resta che diventare più produttivi. Secondo i dati della Bri, il livello di produttività rispetto al pil dell’Ue a quindici è del 30 per cento inferiore a quello Usa. [9] L’espressione ”produttività del lavoro” indica il valore aggiunto per ora effettivamente lavorata o, se si preferisce, la quota di Pil pro capite prodotta da un lavoratore nella stessa unità di tempo. Non il volume lordo della produzione. Pertanto, è la tesi sostenuta da Luciano Gallino sulla ”Repubblica”, la richiesta di lavorare più ore alla settimana non servirebbe per aumentare la produttività del lavoro. A parità di condizioni, allungare l’orario di lavoro permette di aumentare la produzione, ma non la produttività oraria, che è quella che più conta. anzi possibile che la produttività diminuisca, dato che lavorare stanca, e quando si è stanchi i ritmi si allentano e i rischi di errori crescono. [10]

Per Gallino, le strade da seguire sono altre. La prima consiste nello sviluppare prodotti abbastanza ingegnosi da poter essere prodotti a basso costo e venduti a caro prezzo, perché i consumatori sono attratti dal loro valore d’uso. Dato che la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita forma il valore aggiunto, se il primo è basso e il secondo è alto il valore aggiunto schizza all’insù. Creando le premesse per allargare il mercato, nonché per elevare tanto i salari quanto i profitti. il caso di gran parte dell’elettronica di consumo, vedi il successo dei videotelefonini; ma l’equazione vale per qualsiasi prodotto. Una seconda strada per accrescere la produttività del lavoro consiste nel dotare i lavoratori di mezzi di produzione più efficienti, ossia nell’investire in macchinari, impianti, tecnologie infotelematiche. [10]

La terza strada è la più difficile. Ma anche la più promettente: migliorare l’organizzazione del lavoro. Dopo il tanto discorrere sulla morte del fordismo, sull’avvento della new economy, sullo sviluppo del capitalismo informazionale tutto fondato sui bit e poco o nulla su strutture materiali, l’organizzazione del lavoro nelle imprese poggia ancor sempre su mansioni parcellari e ripetitive, sulla separazione netta tra i pochi che pensano e i molti che eseguono, sulla impossibilità per i lavoratori di partecipare a decisioni cruciali per l’efficienza della produzione. A fianco del lavoratore, per regolarne i ritmi, magari non c’è più il cronometrista, sostituito da un computer, ma alla persona che lavora si continua a chiedere la forza delle braccia più di quella della mente. Salvo poi scoprire che se questa non viene usata, magari di nascosto al caporeparto, il flusso produttivo si inceppa. [10]

I sindacati non dovrebbero rispondere con un no secco a proposte tipo Siemens. Secondo Gallino, potrebbero perfino disporsi a contrattare. Ammesso però che la controparte accolga alcuni semplici preliminari: aumentare la produttività non vuol dire faticare di più nelle stesse condizioni di prima, bensì lavorare meglio; la produttività non aumenta senza innovazioni di prodotto e di processo; il maggior giacimento di produttività cui si possa pensare consiste in una organizzazione del lavoro che rispetti e utilizzi l’intelligenza delle persone più che le loro braccia. Con una nota finale: i guadagni derivanti dalla produttività accresciuta andrebbero distribuiti più equamente tra retribuzioni e profitti, diversamente da quello che è avvenuto da vent’anni a questa parte. [10]

Alla Siemens non hanno inventato nulla. Per quattro anni, dal 1998, i 2500 nuovi assunti dalla Zanussi, che apparteniene alla multinazionale svedese Elettrolux, hanno accettato un salario d’ingresso più basso per i primi 24 mesi. Tra gli stabilimenti di tutta Europa era stata indetta una sorta d’asta al ribasso per salvare i posti di lavoro. Alla fine avevano vinto italiani, spagnoli e ungheresi ai danni del colleghi occupati in Svezia, Finlandia, Inghilterra. Ma quella degli italiani è stata una vittoria di Pirro. Paolino Barbiero, ex capo Fiom ora segretario della Cgil di Treviso, dice che l’Elettrolux vuole nuovamente esportare buona parte della produzione italiana in Romania, Ungheria e Turchia. La flessibilità chiesta e ottenuta non basta più. Le richieste si fanno sempre più pressanti. [11]

Tra il 1991 e il 2001 il Veneto ha perso centomila posti di lavoro. Sono migrati nell’Est europeo, in India, in Messico. La sola provincia di Treviso ne ha persi 44.000. Questo, secondo la Cgil, perché gli imprenditori non hanno capito che non si doveva pensare solo al fatturato, che parte delle risorse dovevano essere investite nell’innovazione e nello sviluppo. [11]

Un fatto è certo: la crisi non può essere affrontata con i soliti strumenti, tipo la cassa integrazione. L’obiettivo è quello di spostare quote consistenti di lavoro manifatturiero in attività di marketing, servizi all’impresa, logistica e innovazione. Ma per fare questo, avverte Barbiero, occorre andare davvero a scuola, perché l’inglese, ad esempio, non si impara con un corso di formazione di 100 ore. La Thatcher ha trasformato molti minatori in infermieri, ma ci sono voluti tre anni di insegnamento. Una scelta difficile, ma per dare una professionalità vera non si può fare altro. [11]