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 2003  ottobre 15 Mercoledì calendario

Romano Lalla

• Demonte (Cuneo) 11 novembre 1906, Milano 26 giugno 2001. Scrittrice. «“A me il mare piace guardarlo quando non c’è nessuno”, diceva. E se ne andava allora sul mare di Spalato o a Bordighera, nei mesi tiepidi di maggio e settembre a guardare la linea dell’orizzonte, la luce spezzata che le era cara sulle tele degli Impressionisti che negli anni ’30 gli aveva fatto conoscere Lionello Venturi a Torino e gli amici della scuola di Casorati, i Menzio, i Paolucci e quell’anima lieve di Galante. Se non era il mare, in questi ultimi anni, era la montagna della Valle d’Aosta, a Vetan, sopra Courmayeur, fra quattro case in pietra e grandi prati che la scrittrice di Le parole tra noi leggere, amava prendersi le vacanze, sempre con quel pugno di foglietti pronti ad accogliere una scrittura nervosa, appunti sghembi che andavano poi immediatamente trascritti a macchina. Il “cardo selvatico”, come affettuosamente l’aveva soprannominata Lionello Venturi, quando seguiva le sue lezioni, era nata a Demonte, nel cuneese, nel 1906, da una famiglia borghese, solida e riservata. Lei, appena aveva potuto, se ne era venuta a Torino dove, tra il ’28 e il 29, prende lezioni da Casorati, va all’Università, si laurea in lettere con Giovanni Guarlotti, conosce Franco Antonicelli, respira l’aria di una città gobettiana, mette via quei ricordi che diventeranno Una giovinezza inventata. Perchè se in pittura, dopo lunghi soggiorni parigini al Louvre a “copiare” o fra gallerie e musei a “vedere”, i suoi pittori sono Cézanne e Renoir e gli Impressionisti ai quali da pittrice rimarrà fedele, in scrittura sarà sempre una ricerca sulla parola, sul respiro della frase, a “reinventare” una storia, che da Maria a Tetto Murato, da Le parole fra noi leggere a Nei mari estremi, pescando da una normalità dell’autobiografia punta all’esemplarità, nel segno di un autore molto amato: Gustave Flaubert. E in effetti la sua è stata una esistenza intensa e “minima”, un matrimonio, un trasferimento a Milano, molti anni di insegnamento, i figli, l’addio alla pittura. E la passione per la scrittura come scelta, una lunga fedeltà di vita. Negli ultimi dieci-quindici anni dicevamo che era la “nostra Yourcenar”. E a lei, l’accostamento, piaceva, intellettualmente e fisicamente. Come la scrittrice francese il suo era un “romanzo famigliare”, l’immersione in un universo personale. Fisicamente perchè nel tempo aveva acquistato una grande fierezza nel volto, segnato da rughe che ne scandivano provenienza e passato. Bella era sempre stata bella. Quando, negli Anni 60, 70, veniva a Torino, da Milano in casa Einaudi riusciva ad infiammare il mitico Gerlin, l’usciere stalinista, che nel vederla scendere dall’auto blu del marito, dimenticava le sue lunghe pellicce, i gioielli, i grandi cappelli e le si precipitava incontro quasi con un accenno di baciamano. La Lalla, o la “zia Lalla” come più affettuosamente veniva chiamata in casa editrice, procedeva con fierezza lungo i corridoi, saltando volutamente l’ufficio di Giulio Einaudi, con il quale c’era, tra cuneesi, un amore intermittente, dispettoso e capriccioso, per andare da Giulio Bollati, suo grande protettore. In quegli anni le grandi scrittrici rimanevano Elsa Morante e Natalia Ginzburg e lei, scrittrice meno mondana o “civile”, soprattutto meno “romana” avvertiva intorno come un atteggiamento di distacco, il confinamento in un limbo. Con le parole fra noi leggere, storia di un rapporto difficile fra madre e figlio, a fine Anni 60, la Romano arriva al grande pubblico, è da quel momento che si impone come una delle nostre scrittrici più intense. Ma lei continua la sua vita abbastanza appartata, con una unica eccezione, nel ‘76, quando, insieme al poeta Vittorio Sereni si presenta alle elezioni per il consiglio comunale di Milano dove, eletta, si era “annoiata a morte, come nei consigli di classe. Tenevo un libro sulle ginocchia e leggevo. Trovavo bravi solo i missini, che disprezzavo, perchè dicevano cose vere, concrete per la città. Resistetti pochi mesi e anche il partito fu contento quando me ne andai”. Così ricordò quel periodo di militanza, lei che da ragazza, un po’ nelle retrovie, aveva fatto parte dei gruppi partigiani di “Giustizia e Libertà”. Sapeva essere controcorrente e scorbutica al caso, non le mandava a dire. Se c’era da litigare litigava, fosse il figlio, fosse il suo editore, fosse la sua città, Cuneo, che non l’onorava come avrebbe dovuto. Fosse, come in quel Un caso di coscienza, scritto per Bollati, il ricordo di una difesa nei confronti di una collega, Mimma Capodieci, professoressa alla scuola media Arconati, che da Testimone di Geova rifiuta una trasfusione di sangue al figlio. “Io vivo nella Possibilità/una casa più bella della prosa.”, usava i versi della Dickinson, Lalla Romano, non solo per ricordare il suo esordio letterario da poeta, stimata da Montale, ma come passepartout dell’esistenza, quella di una scrittura che prima che comunicare emoziona, scaglia pulviscoli di luce, venga essa dal sogno o dalla realtà. Quella realtà che le si era sbriciolata dopo la morte del marito, oltre mezzo secolo di convivenza, Innocenzo Monti, presidente della Comit, a cui, Nei Mari estremi, pubblicato nell’87, dedicherà pagine di lacerante verità. Ma, proprio a finire degli Anni ’80, che per la scrittrice si reinventa una giovinezza, con l’amicizia di un giovane fotografo, Antonio Ria, che l’aiuta a ritrovare e far vedere i tanti quadri, pastelli e disegni fatti in gioventù, che l’aiuta a recuperare un grande archivio fotografico di famiglia, che la sprona a partecipare a mostre, a convegni, a reinmettersi in una vita letteraria pubblica alla quale un po’ si era sempre negata. Con Ria affronta viaggi e vacanze da cui nascono piccoli libri dalla levi gatezza di ciottoli di fiume, come Le lune di Havar, memorie dell’immediatezza che ricordano i segni di una calligrafia cinese. Intanto Cesare Segre, per i “Meridiani” Mondadori le fa dono di una grande esegesi della sua opera. Se ne sente un po’ “imbalsamata” ma è contenta perchè più leggera può continuare ad inseguire la “Possibilità”. E intanto festeggia i suoi ottant’anni e poi i novanta. Continua a salire in montagna a scendere al mare. È vero, le si è abbassata la vista, ormai si fa leggere libri e giornali, detta le pagine dei suoi libri. Ma il carattere è forte, telefona rabbuffa se qualche parola non le va a genio. Sa di poterlo fare. E lo fa, fino all’ultimo, avvolta in quella gran massa di capelli, bianchi come le nevi del suo Monviso» (Nico Orengo, “La Stampa” 27/6/2001).