Alvar Gonz·lez-Palacios, "Le tre et", Longanesi 1999, 19 agosto 1999
«Longhi ti dava una fotografia e ti costringeva a dire ciò che non sapevi. Cominciava chiedendo quel che la foto non poteva rappresentare
«Longhi ti dava una fotografia e ti costringeva a dire ciò che non sapevi. Cominciava chiedendo quel che la foto non poteva rappresentare. Non raffigurava un Picasso, né un Matisse, né un’opera del XX secolo... non è Courbet, non è Delacroix... Si arrivava dunque, molto lentamente, ad indicare un’epoca plausibile e con lo stesso sistema ti costringeva - con non pochi aiuti, è ovvio - ad ubicare l’opera esaminata in un ambito più preciso. Ai primi tempi ci si fermava lì, e allora il professore spiegava ulteriormente il dipinto esaminato facendoci vedere e illustrandoci altre opere dell’autore e così si era obbligati a guardare con attenzione non solo una foto, bensì una scelta antologica di un certo tipo di produzione. Via via che i mesi passavano e si incominciavano ad avere ulteriori informazioni, il martirio si rinnovava e attraverso errori e tentativi qualche volta ci si avvicinava alla verità. A mio modo di vedere queste pratiche possono essere paragonate ad una sorta di scambio trasfusionale o, se si vuole, ad uno sdoppiamento della personalità. L’esperienza, che non si discostava nemmeno dalla maieutica degli antichi, sortiva comunque effetto. Rammento di aver passato un intero pomeriggio davanti alla foto di un cassone rinascimentale: alla fine riuscii come per miracolo ad indovinare (era telepatia?) il nome dell’autore di quella scena cortese: si trattava del Maestro dei cassoni Jarves, che da allora non ho più confuso né dimenticato (oggi questo pittore anonimo ha trovato dati anagrafici esatti: si tratta di Apollonio di Giovanni)» (Alvar González-Palacios).