Alvar Gonz·lez-Palacios, "Le tre et", Longanesi 1999, 19 agosto 1999
«Di Harold Acton era tipico l’incedere a piccoli passi, quasi saltellante, con un che di orientale, e soprattutto il modo di parlare, con un accento inglese ma non veramente inglese: era una lingua indimpenticabile, magnifica nel suo continuo scoppio di colori, ma come imparata, costruita
«Di Harold Acton era tipico l’incedere a piccoli passi, quasi saltellante, con un che di orientale, e soprattutto il modo di parlare, con un accento inglese ma non veramente inglese: era una lingua indimpenticabile, magnifica nel suo continuo scoppio di colori, ma come imparata, costruita. L’intonazione restava ancor più personale: cominciava con una sorta di esclamazione, un ohhhh, un uhhhh, un ahhh seguita daun crescendo che metteva accenti del tutto capricciosi per poi scendere di quota e finire in modo carezzevole: ”Ohhh, how very nice to see you, how is your mother?”. Dall’alto ohhh si saliva al più alto nice e all’altissimo you, pronunciato ”con intenzione”, per scendere al quasi inudibile mother. Tutto ciò era cadenzato da una voce straordinaria con un’estensione vocale inaudita, una sorta di Callas della conversazione che poteva passare dal do di petto al bisbiglio con estrema facilità, in glissati perfetti. Per quanto nato in Italia, dove visse comunque lunghi anni, non parlò mai perfettamente italiano, nel quale conservò sempre uno strano accento. Non a caso il suo amico Evelyn Waugh, in una lettera a Nancy Mitford, scrvieva come poor Harold in realtà non possedesse una lingua vera e propria» (Alvar González-Palacios).