A. To. sul Corriere della Sera del 10/12/00 pagina 33., 10 dicembre 2000
«La settimana trascorsa rischia di passare alla storia come quella del Do di petto. Anche persone insospettabili, mai interessate a questo acuto emesso dal tenore, si sono pronunciate pro e contro la scelta di Muti che, come è noto, ha fatto eseguire la celebre cabaletta del Trovatore di Verdi, Di quella pira, senza il ricordato virtuosismo
«La settimana trascorsa rischia di passare alla storia come quella del Do di petto. Anche persone insospettabili, mai interessate a questo acuto emesso dal tenore, si sono pronunciate pro e contro la scelta di Muti che, come è noto, ha fatto eseguire la celebre cabaletta del Trovatore di Verdi, Di quella pira, senza il ricordato virtuosismo. Ma, come dire?, il maestro ha ragione: sono finiti i tempi del Do di petto. La società che poteva permetterselo è sepolta. Era l’epoca in cui si mangiava il lardo senza le smorfie dell’Europa o del dietologo e le misure umane erano fornite direttamente dalla natura, non dal chirurgo plastico. Alberto Savinio ce ne lascia una preziosa descrizione, che ricordiamo e baciamo come una reliquia: "In un’atmosfera tra di conservatorio e di retroscena, riudii i gargarismi pastosi, le grasse espettorazioni, il Do di petto che si prova sottovoce, turandosi l’orecchio con l’indice della destra". Bella, vero? Tutto era così genuino che la letteratura poteva descrivere anche l’anti Do di petto. Basta retrocedere di qualche anno ed ecco a voi Antonio Ghislanzoni (in gioventù baritono, scapigliato, quindi librettista; ricordiamoci l’Aida). Che, tra l’altro, scrisse di Ignazio Marini, il celebre basso a cui fu interdetto l’ingresso all’Opera di Vienna. Perché? Lasciamo la parola all’ex cantante: "Per avere, ad una rappresentazione di gala a cui assisteva l’imperatore, emessa una nota troppo profonda che nessuno poté illudersi fosse uscita dal petto". Sicuramente non si trattava di un Do».