Umberto Eco, la Repubblica 31/12/00 pagina 16-17, 31 dicembre 2000
«Rimane celebre, di Quine, la storia di Gavagai, che rielaboro liberamente. Dunque, un esploratore che non sa nulla della lingua indigena, mentre passa un coniglio tra l’erba, lo addita al nativo e quello reagisce con "gavagai"
«Rimane celebre, di Quine, la storia di Gavagai, che rielaboro liberamente. Dunque, un esploratore che non sa nulla della lingua indigena, mentre passa un coniglio tra l’erba, lo addita al nativo e quello reagisce con "gavagai". Vuole forse dire che per il nativo "gavagai" significa coniglio? Non è detto, potrebbe significare animale, o conglio che corre. Poco male, si rifà la prova mentre passa un cane, o quando il coniglio sta fermo. Ma se il nativo avesse inteso con "gavagai" che stava vedendo le erbe agitate dal movimento di un animale? O che davanti ai suoi occhi si stava verificando un evento spaziotemporale? O che gli piacciono i conigli? Morale: l’esploratore non può fare che delle ipotesi e costruirsi un proprio manuale di traduzione, che forse non è migliore di un altro (l’importante è che presenti una certa coerenza). Il buon illuminista metterà quindi in discussione ogni possibile manuale di traduzione. Ma non potrà mai negare che l’indigeno ha detto "gavagai", e che non l’ha detto mentre guardava il cielo, bensì mentre puntava gli occhi su quello spazio in cui all’esploratore era parso di vedere un coniglio».