Giampaolo Pansa, L’Espresso n. 4, 1997, 18 gennaio 2001
La normalità della storia tortonese è provata anche dal fatto che non ha un perché. Sui quotidiani di questi giorni, esperti di varie discipline ci offrono tante spiegazioni, tutte diverse, che è come non offrirne nessuna
La normalità della storia tortonese è provata anche dal fatto che non ha un perché. Sui quotidiani di questi giorni, esperti di varie discipline ci offrono tante spiegazioni, tutte diverse, che è come non offrirne nessuna. Chi ha parlato, piuttosto della banalità del male? Ho apprezzato la sincerità di un amico di Tortona, un intellettuale, un insegnante, uno che conosce bene la città in cui è nato e nella quale è tornato avivere. Mi ha detto: ti stupirai, ma non ho un’interpretazione di questo fatto orribile e non so immaginare un perché. Che cosa diciamo? Che se avessero avuto un lavoro stabile i nostri lanciatori di sassi sarebbero stati migliori? Non lo credo. Diamo la colpa a Tortona? Ma è una città più umana di tante altre. La diamo alle loro famiglie? Mi sembra una spiegazione troppo stretta. La diamo alla società italiana? Mi sembra troppo larga. Penso, semmai, al vuoto dei sistemi educativi: della scuola, della tivù, dei giornali... Ma questo vuoto, così la vedo io, è spalmato sull’intera nazione. Anche l’omertà dei tortonesi è quella nostra, dell’Italia di oggi. I non omertosi sono rarissimi, e di solito finiscono ammazzati: vi ricordate dell’operaio Guido Rossa e dell’imprenditore Libero Grassi?