Nello Ajello sulla Repubblica del 18/1/2001 a pagina 43., 18 gennaio 2001
Il 17 gennaio scorso, all’età di 82 anni, è morto a Firenze Geno Pampaloni. «Era l’ultimo critico letterario - o uno degli ultimi, in Italia - che concepisse la propria funzione come un "servizio" offerto ai lettori
Il 17 gennaio scorso, all’età di 82 anni, è morto a Firenze Geno Pampaloni. «Era l’ultimo critico letterario - o uno degli ultimi, in Italia - che concepisse la propria funzione come un "servizio" offerto ai lettori. "Ho scritto per fortuna pochissimi libri", diceva di sé, "tutti in età matura e debitamente commissionati"». Tra i suoi scritti: un libro su Adriano Olivetti, l’industriale al cui fianco aveva lavorato con passione; il capitolo sulla «nuova letteratura» nella "Storia della letteratura italiana" di Cecchi e Sapegno; un volume di memorie, "Fedele alle amicizie" e, «da ultimo, una sorta di diario "in limine mortis", uscito periodicamente sul "Giornale" quando era ancora di Montanelli, e di recente in volume ("I giorni in fuga")». Pampaloni usava paragonare la propria cultura a una medaglia: su un lato era incisa la sua formazione cattolica, da sant’Agostino a Pascal a Manzoni; l’altro lato era laico, Omero, Svevo, Moravia. «A chi ne osservava la figura e le movenze, Pampaloni appariva quasi un uomo del Rinascimento: un miscuglio vagamente curiale di sapere e sagacia... Il suo ruolo, cui l’aspetto un po’ da abate settecentesco aggiungeva una sottolineatura in più, lo esponeva a ironie e perfidie. Come quelle che gli indirizzava l’amico, corregionale e quasi coetaneo Franco Fortini, olivettiano anche lui, ma con una riserva inesauribile di moralismo. "Anima e zampa / liscia i padroni / il Geno Pampa- / loni e ne campa". E ancora: "O Geno, Geno / ti manca solo un’i. / Non è davvero un caso / se ti chiami così"». Nato a Roma il 25 novembre 1918, fece in tempo a partecipare al secondo conflitto mondiale e poi alla guerra di Liberazione nelle file dei "badogliani". Nel ’93, con una clamorosa gaffe, il Tg ne annunciò la morte, lui scrisse ironico sul "Giornale": «Sono stato oltre 60 ore più di là che di qua. Ma dov’era la morte?... Morivo, ma chi moriva? Uno sconosciuto, un anonimo, un signor nessuno. Morivo, senza neppure la consolazione di dirmi addio». E, parlando della morte, e soprattutto del "dopo", lo definiva (citando Rabelais) «un grand peut-etre». Un maestoso Forse.