Enrico Deaglio, Diario n.10, L’Unit., 25 gennaio 2001
I proiettili sparati non hanno un Dna, ma hanno anche loro una sorta di impronta «genetica» che costituisce il terreno professionale di una categoria di esperti che prende il nome di periti balistici
I proiettili sparati non hanno un Dna, ma hanno anche loro una sorta di impronta «genetica» che costituisce il terreno professionale di una categoria di esperti che prende il nome di periti balistici. I proiettili hanno fini polveri, strani grassi, si deformano attraverso i corpi che attraversano; lasciano intorno a sé gas, aloni, bruciature. I proiettili recano poi le impronte delle canne delle armi che li hanno sparati: solchi e striature. I proiettili, nei casi giudiziari, sono naturalmente importantissimi e per questo vengono scrupolosamente conservati e catalogati. Hanno ancora qualcosa da dire oggi, a venticinque anni di distanza dall’uccisione del commissario Luigi Calabresi, i due proiettili che lo uccisero? Sì, e comunicano verità scomode. Per esempio, che non furono sparati dalla stessa arma. Per esempio, che non furono sparati da una pistola a canna lunga, ma da una a canna corta. Per esempio, che - forse - uno dei due proiettili non c’entra nulla con il delitto. Se siete appassionati di casi giudiziari complicati, di «gialli tecnici», di intrighi italiani o semplicemente lettori di Patricia Cornwell, provate dunque a leggere questi archivi processuali di un caso lungo ormai un quarto di secolo e per il quale, il 22 gennaio scorso, si è arrivati ad una sentenza di condanna definitiva. Per farlo, occorre partire dal 17 maggio 1972 a Milano.