Enrico Deaglio, Diario n.10, L’Unit., 25 gennaio 2001
Passano quattordici anni in cui il fascicolo calabresi rimane a prendere la polvere. Nel luglio 1988, i carabinieri portano ai magistrati Ferdinando Pomarici (sostituto procuratore) e ad Antonio Lombardi (giudice istruttore) il «colpo di scena» sul delitto Calabresi: Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, poi diventato rapinatore e venditore di frittelle, spinto da un’ansia religiosa e, parole sue, da una precaria condizione economica, si autoaccusa di aver guidato la Fiat 125 blu il giorno dell’omicidio e accusa Ovidio Bompressi di essere stato lo sparatore
Passano quattordici anni in cui il fascicolo calabresi rimane a prendere la polvere. Nel luglio 1988, i carabinieri portano ai magistrati Ferdinando Pomarici (sostituto procuratore) e ad Antonio Lombardi (giudice istruttore) il «colpo di scena» sul delitto Calabresi: Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, poi diventato rapinatore e venditore di frittelle, spinto da un’ansia religiosa e, parole sue, da una precaria condizione economica, si autoaccusa di aver guidato la Fiat 125 blu il giorno dell’omicidio e accusa Ovidio Bompressi di essere stato lo sparatore. Come mandanti indica Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, all’epoca dei fatti dirigenti di Lotta continua. Come arma per il delitto indica una Smith & Wesson calibro 38 con canna di sei pollici, da lui stesso rapinata, insieme ad altri, il 18 dicembre 1970, dall’Armeria Leone di Torino.