Enrico Deaglio, Diario n.10, L’Unit., 25 gennaio 2001
Il colpo di scena avvenne però durante il primo processo di appello, nel 1991. In una delle prime udienze, presiedute dal giudice Cavazzoni, l’avvocato Massimo Dinoia, legale di Pietrostefani, annunciò alla Corte di aver ricevuto degli ingrandimenti fotografici che cambiavano del tutto lo scenario del delitto
Il colpo di scena avvenne però durante il primo processo di appello, nel 1991. In una delle prime udienze, presiedute dal giudice Cavazzoni, l’avvocato Massimo Dinoia, legale di Pietrostefani, annunciò alla Corte di aver ricevuto degli ingrandimenti fotografici che cambiavano del tutto lo scenario del delitto. Dalle fotografie si dimostrava che i due proiettili del delitto - quello rinvenuto non si sa dove, quando e da chi e il grosso frammento estratto dal capo del commissario Calabresi - erano stati sparati da armi diverse. Erano differenti le rigature, era differente il «letto», erano differenti le striature. Il professor Antonio Ugolini aveva fatto quello che in tutti quegli anni non era stato fatto: aveva comparato le fotografie del frammento (un proiettile quasi intero, per la verità) con quelle del secondo proiettile e aveva tratto le sue conclusioni Aveva utilizzato metodi che nel 1972 non erano pensabili: il computer, per esempio. L’avvocato Dinoia annunciò in dibattimento che queste erano solo le prime risultanze del «parere pro veritate» che aveva richiesto, ma che gli sembravano talmente enormi da richiedere un’altra perizia. Poi prese gli ingrandimenti fotografici e li consegnò all’accusa e alle parti civili. Quello che seguì può essere ascoltato nella registrazione audio di quell’udienza. Il presidente Cavazzoni disse: «Il proiettile venne trovato tra i vestiti del commissario».