Gian Paolo Ormezzano, Diario L’Unit n. 11, 29 gennaio 2001
Il testo che segue è vietato ai teneri di professione. Come in tutti i racconti dell’orrore, la premessa è quasi arcadica
Il testo che segue è vietato ai teneri di professione. Come in tutti i racconti dell’orrore, la premessa è quasi arcadica. Si parla di doping e dei suoi primordi sereni. All’inizio infatti il doping era un beverone olandese per quadrupedi da corsa, poi buttato giù anche da muratori impegnati nel freddo a lavorare su alte impalcature. Si beveva la pozione come se fosse vino. Adesso siamo al sofisticatissimo e spesso imprendibile doping per bipedi sportivi, con un controllo antidoping che si dibatte entro i propri limiti, spesso patetici: comunque arrivando già a proibire e identificare prodotti che dopanti non sono, ma che servono da "sapone" nei riguardi ad esempio di anabolizzanti, cioè ormoni per sviluppo rapido dei muscoli (il caso della fondista russa Egorova, beccata in accesso di bromontan ai campionati mondiali ). Anche questo doping rischia di essere arcadico di fronte al doping diciamo ormai classico, lo sport non ha ritenuto di concedersi il lusso trucido o il coraggio lucido di considerare il doping venuto fuori ad Atlanta nei Giochi paraolimpici, svoltisi subito dopo quelli olimpici veri e propri, riservati, come cerca di dire il loro nome, ad atleti disabili o handicappati, in questo caso tutti assimilati lessicalmente ai paraplegici. Eppure siamo all’ultima (o non è sempre la penultima?) frontiera del doping, con il masochismo legato al cinismo.