Marcello Maddalena, Il Borghese n. 5, 1997, 6 febbraio 2001
Caso 1. Una organizzazione criminale riduce in stato di schiavitù, torturandola, seviziandola, e obbligandola a prostituirsi una giovane donna
Caso 1. Una organizzazione criminale riduce in stato di schiavitù, torturandola, seviziandola, e obbligandola a prostituirsi una giovane donna. Per piegarne la volontà ai propri disegni criminali le tengono sequestrato il figlio di pochi anni. Gli inquirenti riescono ad individuare i carcerieri della madre, ad ottenere dal giudice il provvedimento di cattura, ad arrestarli. A questo punto, che si fa? Stando alla disciplina introdotta con la legge sulla custodia cautelare del 1995, nessuno, dico nessuno, né magistrato né tanto meno poliziotto può interrogarli immediatamente per chiedere dove si trovi il bambino e chi siano i complici: neppure in presenza dei difensori, neppure registrando l’interrogatorio, neppure con tutte le garanzie inventate ed inventabili di questo mondo. Gli arrestati debbono essere prima tradotti in carcere, il Gip deve procedere, entro cinque giorni, al cosiddetto «interrogatorio di garanzia» (che, di per sé, non consente domande sui complici ancora non individuati) e solo dopo è finalmente concesso al pubblico ministero effettuare ”I’interrogatorio investigativo”, quello diretto a sviluppare le indagini, liberare il ragazzino, scoprire i complici. Che intanto hanno avuto tutto il tempo di dileguarsi unitamente alla loro ”preda”. E tutto questo perché? Perché si ha il timore di poter incivilmente sfruttare il ”momento magico” che, prima dell’ingresso in carcere (dove chi abbia disponibilità a confessare e collaborare ne passa ben altri, di ”momenti magici”, che gliene fa passare subito la voglia), potrebbe anche indurre l’arrestato a far liberare il bambino ed arrestare i complici. Adesso questo ”pericolo” non c’è più: ma nessuno si scompone.