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 1994  luglio 29 Venerdì calendario

Quella mattina d’agosto Versace aspetta il padre nella casa vuota. Di là, nell’altro appartamento, le solite voci femminili dell’atelier creato dalla madre

Quella mattina d’agosto Versace aspetta il padre nella casa vuota. Di là, nell’altro appartamento, le solite voci femminili dell’atelier creato dalla madre. Viene l’ora di pranzo, ma il padre non c’è ancora: assenza insolita, allarmante. Versace telefona ai cugini, agli altri parenti: nulla, papà non si trova. Vengono le tre, le quattro. A un certo punto Gianni intuisce. Dice al fratello Santo: «Sai dove lo troviamo? Al cimitero». Corrono su, nella parte alta della collina di Reggio: « un bellissimo posto, il nostro cimitero. C’è sempre un po’ di vento, c’e’ quasi un bosco e ci arriva il profumo di zagara». Quella laggiù di pietra grigia è la cappella di famiglia, finalmente la raggiungono, guardano dentro, ecco il padre: seduto su uno sgabello fra due tombe vuote, di fronte alla tomba della moglie nel muro. «Perso, abbandonato, invecchiato di cent’anni, immobile. Nei suoi occhi ho visto il dolore. Ci siamo abbracciati. Avevo ritrovato mio padre. Era come se lo ritrovassi per davvero, lo sentivo stretto a me per la prima volta. Non l’avevo mai perso, in realtà. L’ho perso forse adesso, che e’ morto di più. Adesso ne sento la mancanza: quand’era in vita, quel poco che mi dava in fondo mi bastava. Oggi manca di più perché anche quel poco non c’è più. Ci siamo abbracciati senza parlare. Abbiamo pianto tutti. tornata tutta la nostra vita, è tornata mia madre, è tornato tutto il Sud con la sua solarità e il suo dolore. Poi abbiamo parlato. Si è alzato, siamo tornati a casa. stato un pomeriggio tenerissimo. Sono riuscito a farlo un pò ridere. Eravamo in cucina e sul marmo bianco del tavolo abbiamo bevuto prima una granita di caffé e poi una granita di limone. Siamo passati nel salotto in penombra e siamo stati di nuovo in silenzio. Da fuori non veniva nessun rumore, ma io sentivo che là fuori c’era il mio passato, c’erano gli anni del mare e dell’Aspromonte, le vacanze tutte uguali e le gite al lago e nei boschi, le serate con gli americani della Nato nella base radar di Montalto. Mio padre veniva a trovarci sull’Aspromonte il fine settimana... Se oggi sono quello che sono è perché ho avuto quest’infanzia felice, sana, ricca di affetti. Da allora ho avuto mio padre più vicino. La sua debolezza l’aveva avvicinato. Veniva per Natale, gli telefonavo spesso, gli facevo dei regali. Gli piacevano gli orologi, e io gliene mandavo. Era andato giù, negli ultimi tempi: aveva il morbo di Parkinson. Non mi riconosceva più. Quando è morto, a Natale dell’anno scorso, io non c’ero. Non me ne faccio una colpa, della mia assenza. Non c’ero neanche quando è morta mia madre. Lui era ormai lontano nel suo male, ma lo sentivo accanto. Non posso dimenticare il suo sguardo fra le nostre tombe. Io corro sempre e guardo, e penso che non sono bravo io a guardare ma sono gli altri a esser ciechi; e leggo, tocco, assorbo perché sono una spugna: tutto questo avviene perché ho avuto la mia famiglia. Da mia madre ho preso l’energia, la voglia di farmi il segno della croce e di buttarmi. Da mio padre ho preso il senso di libertà e di onestà, e il gusto della solitudine: io sono uno che ama star da solo, un eremita. Mio padre mi ha insegnato a vedere, mi ha educato all’arte. Posso dire che quel giorno al camposanto io l’ho abbracciato e non l’ho più lasciato, e in quell’abbraccio c’era gran parte del mio futuro e c’erano mia madre e mia sorella Fortunata morta di tetano da bambina, e c’erano mio fratello Santo e mia sorella Donatella che lavorano con me».