Pierangelo Sapegno, La Stampa, 28/10/1999, 28 ottobre 1999
L’uomo che abbiamo davanti potrebbe anche non esistere. Non ha un nome, non ha un cognome, e adesso non ha neppure una vita che gli appartenga
L’uomo che abbiamo davanti potrebbe anche non esistere. Non ha un nome, non ha un cognome, e adesso non ha neppure una vita che gli appartenga. Non ha paura, non ha rabbia, non ha futuro, non ha nient’altro che questa faccia da samurai con i capelli corti tirati indietro e gli occhi che ci fissano senza muoversi mai, come due fessure intagliate sul volto. Keito dice che è uno dei 18 che entrò quella notte di un mese fa nell’impianto della «Sumitomo metalli» per spegnere la Cernobyl del Giappone. Siamo a Mito, a qualche chilometro da Tokaimura, davanti a una casetta di legno e dei cespugli affacciati su una strada che porta il frusciare della pioggia. Noi abbiamo davanti quest’uomo e cerchiamo un segno, la pelle arrossata che si stacca a brani, gli occhi di un alieno, il fremito della morte, qualunque cosa che ci racconti l’orrore di un lampo blu che ha ucciso un’altra volta le speranze di un mondo nucleare. Ma non c’è niente, oltre quello sguardo immobile. Lui non parla inglese. Qui, quasi nessuno parla inglese. Keito traduce quel che dice: «Sono sotto controllo. I medici mi seguono».