Pierangelo Sapegno, La Stampa, 28/10/1999, 28 ottobre 1999
Keito ci ha portato qui perché diceva che tutti conoscono i nomi dei 18. Lei lavora in un negozio vicino alla stazione
Keito ci ha portato qui perché diceva che tutti conoscono i nomi dei 18. Lei lavora in un negozio vicino alla stazione. Parla inglese. Però, i loro nomi devono restare segreti, dice. Perché? «Perché lo vogliono loro». Balle. «Forse lo vuole la Jco. Ma è lo stesso». La Jco è la società che gestisce l’impianto nucleare che s’è incendiato. Keito, chiedigli cosa ne pensa della Jco. Lui risponde: «Io non parlo». Chiedigli se era un volontario. «Non parlo. Sono vivo. Non ho niente da dire». Keito che lo dice: «Non tutti i 18 erano dei volontari». Cioè, li hanno obbligati ad andare dentro a spegnere un incendio nucleare? «Hanno estratto a sorte quelli che mancavano: ce ne volevano 18». Vorremmo chiedergli se ha paura di morire. Ma non osiamo. Un mese dopo, la vedova di Vassily Ignatenko, uno dei 27 pompieri sacrificati a Cernobil, aveva di fronte un uomo che perdeva anche gli occhi, che sbriciolava la sua pelle, che emanava radiazioni col suo respiro. I medici le dicevano: ”Signora, quello non è più suo marito. Scappi via”. Lei restò, perché esiste ancora qualcuno che ha deciso di aspettarti. passato un mese a Tokaimura. Quella mattina, il direttore dello stabilimento, Kogi Kitani, venne fuori e fece un inchino: «C’è stato un terribile incidente. Vi chiedo scusa». I giorni che sono venuti dopo hanno spiegato bene il significato di quell’inchino: tutto lì dentro era fuori legge. L’azienda non seguiva le norme del manuale di sicurezza dell’Agenzia nazionale per la scienza, in pratica il ministero dell’Energia giapponese. [...]