da Ferdinando Pessoa, "Lettere alla fidanzata", Adelphi., 6 marzo 2001
Ferdinando Pessoa scrisse lettere d’amore a Ophélia Queiroz per nove mesi. I due si conobbero in una ditta di Trapani dove lei, 19 anni, si era presentata per un lavoro da dattilografa, e lui, di 12 anni più vecchio, era impiegato come corrispondente commerciale
Ferdinando Pessoa scrisse lettere d’amore a Ophélia Queiroz per nove mesi. I due si conobbero in una ditta di Trapani dove lei, 19 anni, si era presentata per un lavoro da dattilografa, e lui, di 12 anni più vecchio, era impiegato come corrispondente commerciale. Appena la vide Pessoa ebbe il desiderio di incontrarla ancora, perciò fece in modo che le fosse concesso lo stipendio che chiedeva. Tutto cominciò con sguardi e bigliettini che lui le lasciava sulla scrivania. Durante quei mesi di namoro (il periodo che in Portogallo precede il fidanzamento ufficiale) si incontravano solo al lavoro e facevano la strada insieme, seguendo il percorso più lungo che lui aveva tracciato sulla cartina. Di indole allegra e indipendente, Ophélia era bruna e piccolina, con braccia e gambe rotondette. Lo scrittore la chiamava ”Bebè”, ”Bebè piccolino”, ”Bébézinho” e la prendeva in giro: «Quando ci sposeremo comprerò un panchettino perché tu ci salga sopra per darmi un bacio quando io torno a casa. Io entro e faccio: ”Non avete mica visto mia moglie da queste parti?”. Allora tu ti fai vedere e io ti dico: ”Ah, eri qui! Sei così piccola che non ti avevo visto”». Spesso per divertirsi la provocava: «Un giorno mi mandò questo biglietto: ”Il mio amore è piccolino, ha le mutande color rosa”. Io mi arrabbiai. All’uscita dell’ufficio gli dissi con aria offesa: ”Fernando, come può sapere se le mie mutande sono rosa, lei non le ha mai viste...” (ci davamo sia del lei che del tu). Lui mi rispose ridendo: ”Non ti arrabbiare, Bebè, tutte le bebè piccoline hanno le mutande rosa”». All’improvviso, il penultimo giorno di novembre, le disse addio per lettera: «La prego, siamo l’uno con l’altro come due persone che si conoscono dall’infanzia, che si amarono da bambini e, sebbene nella vita adulta seguano altre strade e altri affetti, conservano sempre, in una piega dell’animo, il ricordo profondo del loro amore antico e inutile». Nove anni dopo le avrebbe spiegato: «Se mi dovessi sposare, non potrei sposarmi che con lei. Resta da sapere se il matrimonio o vita coniugale (o come lo si voglia chiamare) sia una forma di vita che possa andare d’accordo con la mia vita interiore. Ne dubito. Per ora, e nel più breve tempo possibile, desidero organizzare la mia vita interiore, il mio lavoro». Ophélia in seguito ricorderà le sue stravaganze: «Ferdinando mi adorava e aveva degli improvvisi momenti di passione che mi spaventavano ma che contemporaneamente mi lusingavano. Per esempio un giorno che suo cugino era uscito entrò nella mia stanza. Senza dire una parola mi prese in braccio, mi portò nella stanza accanto, mi mise su una sedia e si inginocchiò ai miei piedi dicendomi le più grandi tenerezze. [...] Oppure, non so, capitava che stessimo parlando con tutta calma e all’improvviso mi dicesse una cosa che non c’entrava niente, per esempio: ”Acido solforico”. Ma detto con una grande passione»