Cristina Pauly su Il Sole 24 Ore dell’11/3/2001 a pagina XIX., 11 marzo 2001
«Di cosa parlavano gli uomini di Shackleton sull’Isola dell’Elefante? Di cosa vagheggiano i naufraghi? Di piccoli lussi, quelli che si desiderano nei momenti di deprivazione totale
«Di cosa parlavano gli uomini di Shackleton sull’Isola dell’Elefante? Di cosa vagheggiano i naufraghi? Di piccoli lussi, quelli che si desiderano nei momenti di deprivazione totale. Cibo, prima di tutto: uova strapazzate, birra, un toast imburrato, come riportano i diari della spedizione. Alla triste mensa di Ernest Shackleton e dei suoi 27 uomini tra i ghiacci dell’Antartide non si mangiò altro che fegato di pinguino, grasso di balena, carne stopposa di albatros e foca. Per quasi due anni. E quando la crisi si fece nera, anche i cani da slitta della spedizione. L’Endurance sulla quale il capitano anglo-irlandese era salpato nel 1914 con il progetto ambizioso di attraversare a piedi, in 120 giorni, il continente antartico dal Mare di Weddell al Mare di Ross passando dal Polo Sud, non toccò nemmeno terra. Imprigionata dalla banchisa, andò alla deriva con il pack per nove mesi. Stritolata dal ghiaccio, fu abbandonata dagli uomini della spedizione che si divisero su tre scialuppe baleniere per approdare sull’Isola dell’Elefante, la prima terraferma toccata dopo venti mesi. Da qui, con cinque uomini, il comandante intraprese un’altra odissea su una delle piccole barche per andare a cercare soccorso. Raggiunta una stazione baleniera nella Georgia australe, Shackleton tornò a recuperare i compagni tre mesi dopo, il 25 agosto del 1916, su un rimorchiatore cileno. Non un uomo perse la vita. "Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace; ma quando siete nell’avversità e non intravvedete via d’uscita, inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton", scrisse nel 1956 il geologo Raymond Priestley». A Shackleton è stato recentemente dedicato un saggio dalla Nicholas Brealey Publishing britannica. «Che cosa ha spinto le autrici Stephanie Capparell e Margot Morell a dedicare uno studio (rivolto soprattutto a manager, imprenditori, educatori, executive) a un uomo che, tutto sommato, è più famoso per i fallimenti che per i successi? Il fatto è che " Shackleton ha fallito solo nell’improbabile, ma ha avuto successo nell’inimmaginabile", scrive la Capparell. Capace di creare ordine dal caos, considerato un modello di leadership in situazioni critiche, l’esploratore era uno stratega brillante, un maestro dell’adattabilità, uno psicologo e un umorista (uno dei pochi oggetti che salvò dalla nave fu un banjo), e i suoi strumenti erano umanità, comunicazione costante, lavoro di gruppo, coraggio, disciplina e flessibilità. Ma la sua prima "virtù" era l’ottimismo, che Shackleton stesso considerava "vero coraggio morale"» (Cristina Pauly).