Carlo Fruttero e Franco Lucentini, La Stampa, 09/02/2001, 9 febbraio 2001
E tutta l’ambientazione è prepotentemente ”d’epoca”, a cominciare dalla villa con le sue trentasei stanze e i suoi settantamila metri di parco
E tutta l’ambientazione è prepotentemente ”d’epoca”, a cominciare dalla villa con le sue trentasei stanze e i suoi settantamila metri di parco. Fu fatta costruire nell’Ottocento da lord Carnavon, famoso per essere stato il primo a metter piede, o profanare, la tomba di Tutankamen; e come fondale è già di un ricco spessore semantico, sepolcro, mummia, maledizione, Boris Karloff... Senza contare che anni dopo una nipote del profanatore precipitò in mare da quella stessa scogliera di Portofino. Portofino era del resto praticamente obbligatoria, unica o quasi superstite della Liguria anglosvernante ormai subissata da condomini, autostrade, industrie, locuste in pensione. Pochi anni fa, sulla riviera di Ponente, nei temperati ex incanti tra Bordighera e Ventimiglia lasciò il suo segno terrorizzante Donato Bilancia, un serial-killer simbolo dei tempi nuovi, brutali e folli. Il mistero di Portofino si può vedere come una risposta della riviera di Levante: ecco, qui da noi il vecchio stile resiste, è ancora in grado di produrre rompicapi tradizionali, enigmi con signore dalla chioma rossa che scompaiono, eredità miliardarie, giardinieri (tre) e un maggiordomo sia pure polacco e descritto come non proprio all’altezza del suo altisonante nome professionale. E così è anche per gli altri personaggi del dramma: non proprio all’altezza di Poirot, ma senz’altro alla portata di Marlowe e dei suoi californiani ricchissimi e viziati e sempre un rien viscidi.