Guido Rampoldi su la Repubblica del 14/3/2001 a pagina 16., 14 marzo 2001
«Chiunque, direttamente o indirettamente, oltraggia il sacro nome del Santo Profeta sarà punito con la morte»
«Chiunque, direttamente o indirettamente, oltraggia il sacro nome del Santo Profeta sarà punito con la morte». In base a questo passo (comma C, articolo 295) della legge pachistana sulla blasfemia, da anni, le autorità giudiziarie del paese musulmano perseguitano i cristiani che vivono nel paese. L’unico giudice di questi tribunali che aveva osato assolvere due imputati per blasfemia, è stato ucciso. Da quel momento i giudici di tutte le corti hanno cominciato a condannare sistematicamente gli imputati, certi, tra l’altro, che in secondo grado del giudizio avrebbe commutato la pena di morte in lunghe pene detentive. L’accusa contro i cristiani è diventato un rapido sistema di saccheggio: ad essere inquisiti sono sempre i non musulmani che hanno attività commerciali o proprietà terriere, subito saccheggiate o sottratte dopo la condanna. I cristiani del Pakistan provengono da comunità indù convertite durante l’occupazione britannica, per sfuggire alla condizione di ”intoccabile”. Ma parte dell’Islam pachistano ha ereditato il sistema delle caste dell’induismo, che rende i cristiani pariah (impuri). I mullah sconsigliano persino di avere contatti fisici con loro. Nel 1997, il vescovo cattolico di Feisalabad, John Joseph, si uccise: attraversò il viale principale del paese, si recò nella piazza su cui affacciava il tribunale che qualche settimana prima aveva condannato un cristiano, estrasse una pistola e si sparò un colpo alla tempia. La sua morte smosse le coscienze delle potenze occidentali, che chiesero al Pakistan di riformare la legge sulla blasfemia. Nel frattempo, anche i cristiani si sono armati: a Feisalabad e Lahore controllano due quartieri (christian town) in cui i musulmani non possono entrare.