la Repubblica del 04/04/01 a pagina 45., 4 aprile 2001
Lo scrittore Roddy Doyle ricorda i suoi quattordici anni d’insegnamento: «Ho fatto questo mestiere per quattordici anni, ma l’ho amato solo per undici; un anno mi è piaciuto, per un altro anno l’ho tollerato, poi l’ho odiato
Lo scrittore Roddy Doyle ricorda i suoi quattordici anni d’insegnamento: «Ho fatto questo mestiere per quattordici anni, ma l’ho amato solo per undici; un anno mi è piaciuto, per un altro anno l’ho tollerato, poi l’ho odiato. Non tornerei mai indietro. Avrei potuto smettere dopo sei o sette anni ma non ho voluto. Amavo il mio lavoro. Fare l’insegnante in un quartiere operaio è come avere di fronte una casa di bambole con porte e finestre aperte. Osservare la vita delle altre persone stimola l’immaginazione. Anche i meno bravi in fondo vogliono un insegnante che sappia controllarli e insegnare. Ero severo, ma non come si intendeva una volta, alzavo raramente la voce. Cercavo di tener buoni i ragazzi interessandoli e non facevo mai del sarcasmo. I ragazzi, soprattutto nell’adolescenza, sono vulnerabili, non sanno che cosa fanno e dove vanno. Alla fine mi sono arreso perché era diventato un lavoro da robot, una macchina che insegna ad altre macchine come superare gli esami».