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 2001  febbraio 23 Venerdì calendario

Se sono bene informato - ma credo proprio di sì -, il padre di Albertini, a seguito di affari andati a male, dovette dichiarare fallimento

Se sono bene informato - ma credo proprio di sì -, il padre di Albertini, a seguito di affari andati a male, dovette dichiarare fallimento. E a quei tempi il fallimento era considerato no soltanto una irreparabile catastrofe economica, ma anche un marchio di disonore. Anche a Milano, dove si era trasferito, Albertini dovette ricorrere a molti detersivi per smacchiare il nome lasciatogli da suo padre. Ma il Senatore Conti, che gli fu amico, una volta mi disse che fu proprio a questa smania di rivalsa e di riconquista della onorabilità del suo nome, che Albertini dovette il suo successo. Il "Corriere della Sera" in cui entrò dalla porta di servizio come semplice segretario di redazione, carica assolutamente subalterna, era un quotidiano ancora meno autorevole e diffuso degli altri due di Milano: la liberal-cattolica (ma più cattolica che liberale) "Perseveranza", e il radicale "Secolo". Fondato da un napoletano, Torelli-Viollier, e tirato avanti un po’ alla carlona, il Corriere arrancava in cerca di una collocazione politica precisa e decisa, di capitali disposti a investire parte dei loro profitti nella carta stampata, cioè in una impresa considerata fra le più azzardose. Non so come Albertini, da poco inurbato a Milano e tuttora inseguito dall’ombra e dall’onta del fallimento paterno, riuscì a reperire i capitali che gli occorrevano. Ma non solo ci riuscì. Ma divenne anche partecipe (con quali soldi, chissà) e règolo dell’azionariato. Se fossi venuto ad Ancora, avrei trascurato questo capitolo perché confesso che ne so poco. Ma so quale fu il segreto del successo di Albertini: l’autorità che naturalmente egli esercitava su tutti, finanziatori e giornalisti. La esercitò perfino sugli editori del "Times", il giornale-modello di allora, di cui egli copiò, metro alla mano, perfino i mobili. Mentre tutti gli editori, non soltanto italiani, cercavano il successo adeguando i loro giornali ai gusti, che sono quasi sempre i cattivi gusti, dei lettori, Albertini lo cercò costringendo i lettori ad adeguarsi a un giornale che fu per i primi tempi di parecchie spanne al di sopra del livello culturale del suo pubblico. Questo fu il miracolo di Albertini che ho fatto in tempo a conoscere quando, nel ’40, un anno prima della sua morte, venne in visita a Milano, dove non era più tornato dopo il suo ritiro nel ’25 andò a colazione in piazza Castello dal suo amico Gadda Conti, il cui figlio stava per sposare una sua nipote; e, saputo che io abitavo al piano di sopra, volle conoscermi. Era la prima volta che Albertini accettava d’incontrare un giornalista entrato al "Corriere della Sera" dopo il suo ritiro. Parlammo circa un’ora. Alla fine Albertini mi disse: «Mi dispiace di non essere stato io a portarla al Corriere». Nella mia lunga vicenda professionale ho collezionato vari premi e riconoscimenti fra i più lusinghieri, anche se non so quanto meritati. Ma in testa a tutti brillano quelle dieci parole di Albertini. Ecco cosa oggi avrei detto agli amici di Ancona, se avessi potuto venirci (Indro Montanelli).