Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2001  maggio 08 Martedì calendario

Secondo Gillo Dorfles, editorialista del "Corriere della Sera", nella maggior parte delle lingue europee sta scomparendo il tempo verbale del futuro: si assiste cioè a «un progressivo abbandono dell’autentico passato e del netto futuro, dunque un passato che si vuol "presentificare" e un futuro che si vuole ammettere solo parzialmente forse perché non si verificherà mai (o perché si teme che non si debba verificare)»

Secondo Gillo Dorfles, editorialista del "Corriere della Sera", nella maggior parte delle lingue europee sta scomparendo il tempo verbale del futuro: si assiste cioè a «un progressivo abbandono dell’autentico passato e del netto futuro, dunque un passato che si vuol "presentificare" e un futuro che si vuole ammettere solo parzialmente forse perché non si verificherà mai (o perché si teme che non si debba verificare)». Per Dorfles all’origine di questo progressivo abbandono del futuro nella grammatica e nella sintassi ci sarebbero motivazioni complesse: «Già il grande Benjamin Lee Whorf aveva notato, nei suoi studi dei linguaggi amerindi, come alcune tribù, gli Hopi, ad esempio, non impiegassero mai né il futuro né il passato di cui mancava una forma grammaticale specifica. Il che corrispondeva al loro modo di ragionare e di porsi rispetto agli eventi, sia presenti che trascorsi, come se si svolgessero sempre nell’attualità... Una cosa comunque è certa: il nostro modo di esprimerci rispecchia sempre il modo di essere e di comportarsi; sicché è logico che anche il modo di scrivere letterariamente sia lo specchio di questi aspetti esistentivi. E questo spiega altresì perché si evidenzino forme narrative così diverse tra di loro a seconda delle epoche in cui si sviluppano. Si pensi alla grande stagione del romanzo russo e inglese del secolo scorso (anzi di due secoli fa!), oggi non più concepibile di fronte a un "Nouveau Roman" o al recente romanzo statunitense; mentre è ancora rintracciabile nel genere di narrazione di alcuni Paesi, come quelli dell’America Latina, dove il "tempo del romanzo" - ad esempio di Vargas Llosa o di Juan Rulfo, di Montello o di Garcia Marquez - è, in parte almeno, quello "epico" della scrittura - e della vita - ottocentesche. Il tempo d’un Paese e dei suoi abitanti, dunque - nonostante la presunta globalizzazione e gli scambi incessanti tra i popoli - rimane ora ancorato a quello che è lo stadio evolutivo (piuttosto che la peculiarità etnica) dello stesso».