Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 11/04/1999, 11 aprile 1999
Due settori delle carceri giordane di Jueide, periferia di Amman, e di Sawaqa, 150 chilometri più a sud, sono stati destinati alla reclusione di donne «condannate a morte dalla famiglia»: «Vivono come prigioniere
Due settori delle carceri giordane di Jueide, periferia di Amman, e di Sawaqa, 150 chilometri più a sud, sono stati destinati alla reclusione di donne «condannate a morte dalla famiglia»: «Vivono come prigioniere. Non hanno futuro. Sono ripudiate dai loro cari, rischiano la morte se mettono piede fuori dal carcere» (Mumen Hadidi, direttore dell’istituto di medicina di Amman). Se una donna si innamora di un uomo diverso da quello prescelto dalla famiglia, se non arriva vergine al matrimonio, se viene violentata, rischia di essere uccisa dai suoi. Rana Husseini, giornalista del ”Jordan Times”, che nel ’94 indagò su un caso di ”delitto d’onore”: «Kifaia, 16 anni, era stata uccisa dal fratello di 34 anni dopo essere stata violentata da un altro fratello ventunenne. Tutti gli uomini del clan difendevano l’assassino. Accusavano la ragazza di avere sedotto l’altro fratello. Ma il fatto che mi lasciò più stupita fu che il colpevole non mostrava alcun pentimento. Anzi, era orgoglioso, assolutamente in pace con se stesso». Ayman, 20 anni, in carcere per aver ucciso a colpi di pistola la sorella sedicenne Amal: «Doveva morire. Un nostro vicino l’aveva messa incinta. Non aveva scampo, le consuetudini prescrivono che doveva morire. Ne andava del buon nome dell’intera tribù». Gli autori di violenza carnale spesso sfuggono alla pena sparendo dalla circolazione per qualche mese.