Su La Stampa del 14/03/01 a pagina 23., 14 marzo 2001
«Nel braccio della morte del carcere di Mecklemburg siamo solo una cinquantina, un sesto dei detenuti, ma nonostante ciò ci considerano una ”minaccia alla sicurezza”
«Nel braccio della morte del carcere di Mecklemburg siamo solo una cinquantina, un sesto dei detenuti, ma nonostante ciò ci considerano una ”minaccia alla sicurezza”. Per questo motivo, possiamo uscire dalle nostre celle solo per 4 ore al giorno, in cui stiamo in un’area recintata grande come un campo da pallacanestro, con le mani ammanettate dietro la schiena e i piedi incatenati. Non possiamo socializzare con i detenuti delle altre ali. Non ci permettono di parlare con i giornalisti, né di conversare al telefono senza essere spiati e ascoltati. Vengono a controllarci ogni ora. Quattro volte al giorno (alle 8, alle 12, alle 16 e alle 20) dobbiamo alzarci in piedi e rispondere all’appello. Di notte le guardie passano ogni ora, sbattono i manganelli sulla porta d’acciaio della cella e ci puntano addosso il fascio di luce della torcia elettrica. Le nostre uniformi sono diverse da quelle degli altri detenuti, diversi gli oggetti che abbiamo il diritto di procurarci, diverso il trattamento medico, diverse le visite. Ma la cosa più drammatica è la presenza della morte. La morte ci circonda, ci avvolge, in attesa di abbracciarci. Qui dentro gli uomini piangono in continuazione: sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, piangiamo lacrime invisibili» (Dal diario di Rocco Derek Barnabei, giustiziato nel carcere di Jarrett, in Virginia, il 14 settembre 2000).