Cesare Zavattini pag.17-18, 26 maggio 2001
Macché - 19 luglio 1953 - Ho ai piedi un paio di scarpe da tre mesi, e i tacchi sono ancora intatti
Macché - 19 luglio 1953 - Ho ai piedi un paio di scarpe da tre mesi, e i tacchi sono ancora intatti. Anche oggi, infatti, ho visto declinare il giorno chiuso nel mio studio, pensando: che possa fare almeno due passi prima del calare del sole, qualche volta ci riesco e arrivo sul ciglione della ferrovia quando sopra le torrette metalliche della stazione Tiburtina si accendono le lampadine elettriche che hanno una loro luce d’argento fuori tempo, direi. Questo giorno ha resistito nella bandiera bianca rossa e verde su una delle case in costruzione che mi toglieranno l’ultimo pezzo di cielo, prima avevo le colline dei Castelli davanti con un cielo molto alto. Ho visto sorgere le case dalle fondamenta, quando arrivano i camion e buttano giù con fragore pali di legno e ferri, ho visto fare dei buchi per terra larghi come una tomba e venir fuori da ciascuno la testa dell’operaio che ci lavora. Mi hanno accompagnato talvolta gli amici durante queste brevi passeggiate. Con Maselli, si procedeva passo passo e dei bambini aveveno tracciato coi sassi la pianta di un appartamento, alcuni stavano dentro a un rettangolo, si scambiavano le visite e uno entrava e usciva da una pozzanghera, non gli pareva mai di essere sporco abbastanza e quando fu sporco al massimo il fratello più grande lo prese a calci nel sedere e si diceva che ci vorrebbe sempre la pellicola in tasca come il lapis; un’altra volta con Franciolini si decise di fare un film in un mese con questo esterno, era un giorno di vento e dei camion blu scaricavano la terra per alzare un terrapieno nel mezzo del quale si alzava una casa alta e semplice cui mancò la luce per molto tempo sicché gli abitanti vi accendevano come siliati, lucerne e candele. Con Gerardo Guerrieri invece, s’arrivò un po’ più in là, a Villa Mangani, gente che durante la guerra faceva il mercato nero, sollevavano i materassi e c’era sotto il pecorino e la farina; una madre e i suoi sei figli, con dei barattoli portavano da un prato pazientemente la terra dietro la loro baracca per piantarvi insalata, e andavano e venivano per un’ora in silenzio e rapidi come quando si chiude una falla durante l’alluvione. Poco fa gli operai sulle impalcature hanno messo giù gli arnesi; quelli sull’impalcatura più alta, dove c’è la bandiera, pur essendo lontani da casa 200 metri almeno, sembrano grandissimi e ci si meraviglia di non udire ciò che dicono. I miei amici non si accorgono, o forse sì, di questo mio continuo dare occhiate fuori, mentre parlo o li ascolto, come una talpa a rovescio, perchè raspo fuori per trovare sempre ancora un po’ di luce. C’era un tempo un vecchio, al quarto piano della casa di fronte, camminavo su e giù per il mio studio come al solito e Blasetti appuntava i nostri discorsi e ogni tanto sollevavo la tendina, fu così che il mio sguardo si incontrò con quello del vecchio. Il vecchio era in un periodo di guai per una pensione che faticava a risquotere e si era rotto una gamba, gli feci un cenno di saluto, lui mi rispose scuotendo la testa, poi tirò fuori le mani e con quelle si espresse chiaramente per dirmi; mi butterei giù dalla finestra. Gli feci un gesto che significava: macché! Restammo tre o quattro secondi a guardarci in silenzio, ripetei con il gesto macché poi ripresi a andare su e giù, tutto durò meno di mezzo minuto e Blasetti non se ne poté neanche accorgere.