Adriano Sofri, "Piccola posta", Sellerio 1999, 12 settembre 2001
«C’è
un giovane, qui al piano terreno, spesso barcollante e intontito dal metadone, sempre in pena per la sua bambina. Da un po’ di tempo ha cominciato a tagliarsi, sempre più profondamente; le braccia, il corpo. Ormai è raro che lo facciano gli italiani: gli arabi lo fanno continuamente. Perché lo faccia questo giovane italano, nessuno riesce a capire, a parte la disperazione. Non chiede niente, non si ferisce per difendersi, o ricattare. L’opinione prevalente è che si riduca così perché, dopo averlo ricucito e fasciato, gli danno una tal dose di sedativo da farlo crollare addormentato. C’è un’evidente sproporzione, ma a lui non deve sembrare così. Ma non è che volessi raccontare questo: che gusto volete che provi a farvi vedere queste pozzanghere di sangue. Al contrario: volevo dirvi che, privo pressoché di ogni comunicazione col resto della selvaggina ingabbiata con lui, questo ragazzo tuttavia non è riuscito a dimenticare di saper giocare bene a scacchi. E’ in corso un torneo, dominato dagli slavi, se non fosse per lui, che all’ora di apertura si trascina fino alla stanza comune, gioca la sua partita, vince, e senza mutare di un battito di ciglia la sua aria inebetita e postuma si rialza e ridiscende, fasciato come Lazzaro, nel suo sepolcro, a cercare sonno. Vedete che, in fondo, non era una storia così triste».