Aldo Cazzullo su La Stampa del 03/10/01 a pagina 11., 3 ottobre 2001
Mohammad Zahir Shah Almutawakil-Alalah, «Colui che ripone la sua fede in Allah», da 68 anni legittimo re degli afghani, da 28 in esilio, «da tre settimane è l’uomo su cui l’Occidente punta per dare all’Afghanistan pace e governo»
Mohammad Zahir Shah Almutawakil-Alalah, «Colui che ripone la sua fede in Allah», da 68 anni legittimo re degli afghani, da 28 in esilio, «da tre settimane è l’uomo su cui l’Occidente punta per dare all’Afghanistan pace e governo». Quando il cugino Mohammed Daud gli scippò il potere a Kabul e proclamò la Repubblica afghana, Zahir Shah era in Italia, a Ischia, a fare i fanghi. Ci torna spesso, per curarsi la lombaggine; è stato anche a Firenze, Napoli, Pompei. Perso il regno, rifugiatosi a Roma, l’ex monarca pregò i cortigiani d’informarsi discretamente sui luoghi dove avrebbe potuto praticare l’hobby preferito, la caccia alla rarissima gazzella del Pamir (chiamata dai nativi "marcopolo"), che usava inseguire a cavallo sugli altipiani del suo Paese. Gli fu risposto che fino a qualche anno prima il presidente Saragat organizzava battute di caccia (al cinghiale, però) nella tenuta di Castelporziano, ma poi aveva smesso: c’erano tuttavia circoli di golf, di tennis e di canottaggio, nonché, vicino alla Marina, una palestra che lui prese a frequentare regolarmente. Poco amante di ristoranti del centro, ricevimenti all’ambasciata e soirées nei palazzi dell’aristocrazia, re Zahir frequenta volentieri le trattorie sul lago di Bracciano (ad esempio la Grotta Azzurra, dove ordina filetto di coregone al tavolo di solito riservato a Franca Valeri o Tullio Solenghi) oppure si fa portare a casa tre pizze (per sé, la regina Homaira e il nipote Mustafà) con un’unica preghiera: che la mozzarella sia di bufala. In televisione guarda "Novantesimo minuto": benché non parli una parola d’italiano, infatti, lo capisce perfettamente. Di solito cena al Cafè de Paris; si fa confezionare doppipetti e completi blu da Caraceni, lo stesso sarto di Berlusconi; a volte va da Doney’s nella sua Jaguar con autista (prima era una Cadillac), si siede all’aperto e guarda la gente che passa. E si diverte a disegnarla: ha due passioni, gli scacchi e la pittura. Con l’età ha abbandonato i quadri, per tenersi in esercizio fa caricature: dei passanti di via Veneto, dei potenti incontrati negli anni di regno, dei personaggi frequentati a Roma. Dopo l’attentato fallito di un sicario portoghese (che si presentò come giornalista nella sua casa sulla Cassia e gli vibrò tre coltellate) si trasferì all’Olgiata, in un piano con mansarda e scaletta interna: fuori prato all’inglese, allori, una stradina sterrata e un presidio di poliziotti, carabinieri e afghani di complemento, dentro tavoli di legno grezzo, lampadari di cristallo, vasi di orchidee, una collezione di fotografie antiche. Fuori, anche, «l’atmosfera surreale dell’Olgiata, i passanti in bermuda e occhiali scuri ottimi soggetti per le caricature del sovrano, i fuoristrada, le piscine senz’acqua per dieci mesi l’anno... i luoghi del doppio esilio, i segni della lontananza al quadrato, dalle gazzelle del Pamir ma anche da Roma, quella vera».