Eugenia Tognotti su La Stampa del 10/10/01 a pagina 9., 10 ottobre 2001
Il termine "carbonchio" o antrace (dal "Bacillus Anthracis") appare con frequenza nei documenti fin dal XVI secolo a indicare una malattia letale che, come la peste o il «castigo de Dios», nasce dalla «corruptione et infectione» dell’aria, avvelena il sangue e provoca l’apparizione di pustole e «petecchie»
Il termine "carbonchio" o antrace (dal "Bacillus Anthracis") appare con frequenza nei documenti fin dal XVI secolo a indicare una malattia letale che, come la peste o il «castigo de Dios», nasce dalla «corruptione et infectione» dell’aria, avvelena il sangue e provoca l’apparizione di pustole e «petecchie». Nota fin dall’antichità, è la malattia di cui Sofocle, nelle "Trachinie", fa morire Eracle per mano della consorte Deianira, che, divorata dalla gelosia, invia in dono al marito una veste intrisa del sangue del centauro Nesso, colpito a morte dall’eroe con una freccia avvelenata: una volta indossata, questa provoca la malattia che lo ucciderà (la pelle sembra staccarsi, fiumi di sudore scorrono dal corpo febbricitante, dolori lancinanti colpiscono ossa e torace). Virgilio, nelle "Georgiche", dà una descrizione simile del malanno che affligge pecore e buoi (ma caratteristica dell’infezione è proprio quella di essere pericolosa allo stesso modo per uomini e animali). Nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, il carbonchio ha provocato una media di 550 morti l’anno; in Sardegna, nel 1896, portò alla morte anche il leggendario bandito Giovanni Tolu, descritto da Gramsci nelle lettere alla madre (la cauterizzazione delle pustole, unica strategia terapeutica conosciuta all’epoca, non bastò a salvargli la vita, morì dopo tre giorni).