Paolo Isotta sul Corriere della Sera del 18 ottobre 2001, pag. 35, 18 ottobre 2001
"Fu facile?" "Gl’inizi furono disastrosi. Io però ho avuto due fortune: quella di trarre, sempre, insegnamento dai miei errori; quella di comprendere che il mio talento naturale e la mia memoria possono essere addirittura un ostacolo sul vero cammino dell’arte
"Fu facile?" "Gl’inizi furono disastrosi. Io però ho avuto due fortune: quella di trarre, sempre, insegnamento dai miei errori; quella di comprendere che il mio talento naturale e la mia memoria possono essere addirittura un ostacolo sul vero cammino dell’arte. Se ci si affida solo a loro, in breve tempo si diviene improvvisatori e ciarlatani. Il talento nativo ha da esser quotidianamente innaffiato dallo studio, che a sua volta deve avere non il fine dell’immediata spendibilità del suo risultato. Se oggi studio l’Idomeneo sapendo che non potrò purtroppo dirigerlo mai, domani mi servirà per comprendere meglio, che so, il Guglielmo Tell. Grazie all’unione dei due elementi, natura e studio, io sono sul podio così sicuro di me da esercitare su ogni orchestra un metus reverentialis però non paralizzante, e un’azione calmante su tutti gli interpreti... Direttori bravissimi ma a volte internamente insicuri li innervosiscono per zelo, poi avviene la reazione a catena..." "Forse nessun Maestro vivente domina come Lei tanta esperienza quale direttore d’Opera italiana.? Che cosa pensa del tema che, in questi anni, pare aver assorbito tutti gli altri, quello delle cosiddette ’edizioni critiche’, adottare le quali è oggi un obbligo tassativo?" "Come Lei, credo che un testo attendibile, con l’elenco delle varianti, d’autore e no, sia una grande conquista culturale. Ammettiamo per ipotesi che testi siffatti siano infallibili e facciamo astrazione da motivi non altrettanto nobili che si celano dietro la dizione ’Edizione critica": ogni direttore ha il dovere di conoscere tali testi. Non sono d’accordo, invece, sull’automaticità o addirittura coattività dell’adozione. La vita teatrale era all’epoca aleatoria oltre ogni dire, lo è ancora. Ogni direttore deve farsi la propria edizione, motivata da infiniti fattori, non ultimo dei quali il gusto: e questa propria non deve mai considerarla definitiva. Io non sono lieto quando mi si dipinge depositario di una ’tradizione’, parola della quale non saprei bene precisare il significato. Penso piuttosto che ogni testo possegga un nucleo intangbile: l’interprete ha il dovere di individuarlo e rispettarlo: e lo indicherei col termine sintetico di stile. Il resto è accidentale: può mutare coi luoghi, col tempo... La condizione è che sia salvo il rispetto dello stile. Proprio quest’ultimo punto mi preoccupa, per il presente e l’avvenire. Quando vediamo perduto persino, come dire, il minimo comun denominatore del linguaggio, che dovrebb’essere automaticamente condiviso..." "Posso chiederle, Maestro, di commentare questa sentenza di Borges? ’I successi vengono solo dall’amicizia, dall’intrigo, dalla fatalità’". "La verità non richiede commenti. Citerò, per simmetria, sant’Agostino, sia per rafforzare la risposta sia perché il significato ideale della sentenza, siccome esorta a liberarsi di ogni pompa, orpello, demagogia, dovrebbe guidare ogni artista: ’In verbis verum amare non verba’, ’Nel discorso conta il vero, non contano le parole’".