Guido Tiberga su La Stampa del 28/10/01 a pagina 24., 28 ottobre 2001
«E’
appena tornato, restaurato e giustamente celebrato, un vecchio cartone animato della Disney. La storia racconta di morti reali e apparenti, trasformazioni terribili e tentati omicidi. La protagonista irrompe nella vita dura di un gruppo di ”diversamente abili", usa le loro cose, stravolge le loro abitudini e ne fa innamorare senza speranza almeno un paio, salvo poi abbandonarli per correre dietro al suo datato sogno matrimoniale. La sceneggiatura ricama sull’orrore, lasciandosi andare a immagini che, per diretta ammissione dei produttori, «possono spaventare i bambini». Se fosse l’ultima uscita dell’industria televisiva giapponese si sarebbero già sollevate proteste di genitori apprensivi. Ma si tratta di Biancaneve, e allora molti affermano con sollievo di aver finalmente ritrovato qualcosa di «poetico» da mostrare a una giovanissima generazione che la tv ha svezzato a mostri, violenza e spaventi. Peccato che "Biancaneve e i sette nani" non sia mai stato un film per bambini. Anche senza esagerare con le provocazioni (le stesse peraltro che hanno convinto alcune biblioteche americane a togliere dal catalogo la favola dei fratelli Grimm), Biancaneve non è un film per bambini perché Disney non ha mai voluto che lo fosse: ai disegnatori che gli proponevano una regina cicciona in stile cartoon, fece sapere chiaramente che voleva «una via di mezzo tra Lady Macbeth e il Lupo Cattivo». Tornato da un viaggio in Europa, impose le illustrazioni di Doré per l’Inferno dantesco come modello per la fuga della ragazza nella foresta, con gli alberi che si trasformano in mostri dai lunghi artigli e i tronchi galleggianti che diventano coccodrilli. I film degli anni 30 su Dracula e Nosferatu furono proiettati e riproiettati negli studios come ispirazione per il castello della regina, la cui trasfigurazione in strega cattiva fu «ordinata» da Disney con queste parole: «Si devono vedere molte ombre, e lei deve venir fuori dalle ombre come mister Hyde dal dottor Jeckyll». Walt, nel 1937, voleva stupire il mondo dimostrando che il cartoon poteva reggere la durata di un lungometraggio. Creò un capolavoro che cambiò per sempre la storia del cinema d’animazione, ma di bambini parlò solo quando venne l’ora di fare i conti, quasi lamentando che «se molti gestori non li avessero fatti entrare per dieci cents» gli 8 milioni di dollari dell’incasso avrebbero potuti essere ben di più. A chi gli faceva notare che alcune scene erano troppo realistiche, replicava che solo la presenza di un cattivo a tutto tondo poteva dare un senso alla vittoria del Bene sul Male. Il che, per inciso, è la stessa risposta che i cartoonist giapponesi danno oggi a chi protesta per la violenza dei loro lavori. Meglio tenerne conto, prima di sedere i nostri figli davanti alla nuova Biancaneve digitalizzata. E se i più piccoli si mettono a piangere, non pensiamo di aver messo al mondo dei pusillanimi: negli anni 40 la censura inglese proibì il film ai minori di 12 anni. E in Svezia, ancora fino al ’92, nessuno potè vedere gli avvoltoi scendere lungo il dirupo dove «poeticamente» giaceva il cadavere della strega-regina» (Guido Tiberga).