Giorgio Cosmacini sul Corriere della Sera del 16/11/01 a pagina 37., 16 novembre 2001
Nei secoli scorsi le lettere, considerate un possibile veicolo di contagi, venivano sottoposte a tecniche di disinfestazione spesso molto accurate
Nei secoli scorsi le lettere, considerate un possibile veicolo di contagi, venivano sottoposte a tecniche di disinfestazione spesso molto accurate. In un editto pubblicato a Brescia l’11 aprile 1713 si legge: «Arrivati li corrieri a’ confini di questo Serenissimo Stato, doveranno le guardie avisarne l’incaricato. Questi ordinerà che, fuori del cancello, dal medesimo corriero sia aperta la valiggia, sacchetta o altro in che esistessero le lettere, e liberati li pieghi da spaghi, fili ritorti e canapi, gli commetterà di vuotarli nel setaccio... Fatto poscia allontanare il corriero, comanderà che da persona non sospetta sia esso setaccio preso per il manico e posto sopra un braciere, perché restino esse lettere ben profumate per il difuori, dimenandole con una bacchetta, così che tutte ricevano il fumo in copia». La «fumigagione» della posta così praticata (in apposite stazioni vicine ai posti di transito) era una disinfezione esterna con fuoco a fiamma bassa per non bruciare la carta. Il fumo (o «profumo») che si sprigionava dalla legna umida determinava la «tostatura» delle lettere, le cui tracce erano poi evidenti sui fogli «arsicciati». Il tutto comportava il rischio di rendere lo scritto illeggibile, di annerirlo o di rovinarlo senza rimedio. Si pensò quindi di passare a metodi meno distruttivi. Il 15 novembre 1837, in piena epidemia di colera, un dottore di Napoli così scriveva al Magistrato della Sanità: «L’espurgo della corrispondenza consiste nell’immergere rapidamente le carte nell’aceto, e nel far poi volatilizzare questo con l’aiuto del calore, fino a ottenere l’asciuttamento: è l’acido acetico quello che fa da agente di disinfezione, e ognuno sa che gli oggetti possono esservi immersi senza che ne restino alterate le qualità».