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 2001  novembre 24 Sabato calendario

«Lo spettacolo comincia alle sette in punto, quando il sole viene su rabbrividendo dai 4000 metri del Paghman Range e si distende lento dentro l´altopiano di Kabul

«Lo spettacolo comincia alle sette in punto, quando il sole viene su rabbrividendo dai 4000 metri del Paghman Range e si distende lento dentro l´altopiano di Kabul. Qard Aga, 28 anni, professione mujahed, si tira allora fuori dalla coperta nella quale si è avvoltolato contro il gelo, sfilangia le ossa, e si avvicina alla stazione di servizio. Comincia un´altra giornata di lavoro, la guerra può essere anche una routine. Sul fuoco, appena a due passi dalla pompa di benzina, c´è il samovar del tè e sembra l´appuntamento del mattino al bar d’angolo. Tutti zitti e tutti a bere[...]. Alle sette del mattino la gran parte dei giornalisti ancora dorme, e il campo di battaglia ha la stessa aria sciatta e trascurata degli studi televisivi prima che lo show venga montato[...]. Uno al mattino si alza (dal suo sacco a pelo), fa la barba (se c´è l´acqua), prende il tè (il caffè è una ciofeca), poi monta in auto e (se il motore parte) parte anche lui. La sola scocciatura sono i due posti di blocco che rallentano la marcia; ma non si possono avere tutte le comodità. In fondo, siamo in guerra. Alle sette, insomma, più che lo spettacolo comincia l´allestimento, quella cosa che attrezzisti, montatori, elettricisti, preparano sul set in attesa che arrivi il pubblico. Il punto di raccolta è la stazione di servizio, quelli della tv scendono dall´auto e si vestono con il giubbetto antiproiettile: fa tanto reporter di guerra, e l´inquadratura ne guadagna un sacco. Sdraiato sul cassone del blindato che si sta scaldando al sole, Qard Aga osserva curioso. E dice qualcosa - certamente di poco carino - al compagno che gli sta accanto. Indossano entrambi le divise nuove dell´Alleanza, poi per il resto ognuno si arrangia: e Qard ha un magnifico paio di scarpe da tennis finto-Nike che fa a pugni con la marzialità della tuta mimetica. Ma si sa che le guerre vere non sono come al cinema, dove invece tutto è fatto a puntino. Il set è comunque una meraviglia. I mujaheddin sono sparsi sul pianoro, accanto ai tank e ai blindati; e in queste giornate fredde la luce abbagliante del sole, che taglia l´aria come se la passasse con il lucido, li fa sembrare le comparse di Spielberg. I taleban stanno invece acquattati dietro la montagna, a un chilometro o poco meno. Ogni tanto i loro turbanti neri spuntano fuori da qualche costone come i funghi dopo la pioggia, ma dura solo un attimo. Un mujahed li guarda dentro il telescopio del suo fucile: «Prima o poi uno lo prendo», e fa un ghigno felice. «Comunque li distruggiamo», assicura il comandante in capo Haji Shar Allam, e con la mano fa come se tagliasse l´aria. Uno se lo immagina un rambo afghano, tutto muscoli e barbone nero; ma sbaglia. A parte il fatto che Shar Allam se la prende comoda e arriva sul campo di battaglia come le prime donne, quando ci sono già tutti e manca lui soltanto, poi lui è uno basso e tracagnotto, appesantito dal panzone, porta un golf sotto la giacca perché qui fa freddo, e sotto la giacca e golf ha un camicione lungo fino alle ginocchia e la maglietta della salute. Sembrerebbe uno da «Armata Brancaleone», ma l´ossequio con cui viene trattato nobilita perfino il suo mocassino mezzo sfasciato. In sua assenza, comunque, lo spettacolo della guerra non è stato ad aspettare l´arrivo del protagonista. Le cannonate sono andate e venute con una cattiveria che lasciava pensare come quelli che mettono il giubbetto antiproiettile e non siano poi del tutto vanesi. E´ una battaglia vera, insomma; però l´aria che gira intorno è tanto rilassata che davvero sembra di stare dentro un film, i mujaheddin che fumacchiano tranquilli, i loro ufficiali che prendono il tè, non un miliziano che sembri angosciato dal fatto che comunque stiamo combattendo, e allora uno approfitta del sole come se fosse a Cortina. Tra un botto e l´altro, il silenzio è rotto soltanto dal gracchiare fastidioso dei walkie-talkie: con la radiolina attaccata all´orecchio, i comandanti ascoltano il dialogo che, a un chilometro di distanza, si stanno scambiando gli ufficiali dei taleban. «Come stai, fratello? Passo». «Questa è caduta vicina. Passo». «Bisogna prestare attenzione sul fianco destro. Passo». I mujaheddin fanno crocchio attorno alla radiolina, e ridono; sembra il film di Franco e Ciccio, dove nessuno sapeva più chi sono i nemici e chi gli amici. Ma quelli che si dicono «passo» e «passo» sono davvero due fratelli, si chiamano Golan Mohammed e Mussan Mohammed, e comandano i taleban; tuttavia uno non capisce bene perché Shar Hallam ce l´abbia tanto con loro, finché non viene a sapere che i due qualche tempo fa avevano accettato di passare con l´Alleanza e - per questo cambio di casacca - si erano messi in saccoccia 300 mila dollari, dimenticandosi però, subito dopo, che le promesse andrebbero mantenute. «Vedremo come finirà», dice Shar Hallam ai reporter che lo seguono dappresso[...]. La tranquillità dei soldati, quasi la loro indifferenza ai fatti, nonostante le cannonate e un assalto fallito alla montagna dove i taleban sono rifugiati, rivela un´abitudine naturale alla guerra che forse nessuna altra parte del mondo può permettersi. Abdel Khaim, il compagno di Qard Aga, si è perfino addormentato, steso sul blindato; e nemmeno i botti dei cannoni e Katiuscia riescono a svegliarlo. Ma tra la prima fila dello spettacolo e le montagne laggiù la battaglia non è soltanto lo scambio della cannonate: una figuretta fa la spola a piedi lungo la strada, con la sua coperta sulle spalle e il pakul in testa, portando i messaggi di una trattativa che potrebbe evitare lo scontro finale. I mujaheddin seguono indifferenti i viaggi di andata e ritorno, con il disprezzo di chi la guerra la fa davvero anche quando se ne sta a russare sotto le cannonate. Questi che ora fumacchiano, prendono il tè, o se ne vanno a spasso tra blindati e carri armati, sono poi la stessa gente che alcuni anni fa, quando aveva tra le mani un soldato sovietico, gli tagliava con un sorriso naso e orecchie e poi lo rispediva ai suoi compagni. La stessa gente, comunque, che in questi giorni tra Mazar-i-Sharif e Kunduz, scanna a freddo centinaia di nemici e scatena un´ondata di terrore fin dentro questo show alle porte di Kabul. Il messaggio che porta ai fratelli Mohammed che hanno truffato l´Alleanza è probabile che non parli soltanto di quel lontano giorno e del dovere di restituire i 300 mila dollari. Quando il generale Shar Hallam taglia l´aria con la mano e dice ai reporter: «Comunque li distruggiamo», sa bene che il tipo di missiva abbia trasmesso a quelli che sono acquattati dall´altra parte del costone; una missiva che certe notizie su Mazar e Kunduz la porta a chiare lettere: è la voce che dal walkie-talkie all´improvviso parla in arabo conferma il massacro prossimo venturo. Poi però arriva l´una del pomeriggio, e di botto la guerra s´interrompe: è l´ora della preghiera, i cannoni vengono messi a riposare, rientrano i tanks, anche il messaggero se ne può tornare a casa. «Ci vediamo domani», dice ai reporter il generale con la panza, il golf, e la maglietta della salute. Ed è come se dicesse: domani si replica. I cameramen ripongono le loro attrezzature, quelli della tv con il giubbetto antiproiettile si rivestono in borghese, Qard Aga si trastulla con uno stuzzicadenti. Poi sputa a terra» (Mimmo Candito, inviato a Maidanshar).