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 2002  febbraio 12 Martedì calendario

AULENTI Gae Palazzolo della Stella (Udine) 4 dicembre 1927. Architetto. Laurea ad honorem in Belle Arti alla Rhode Island School of Design di Providence, cavalierato di Gran Croce della Repubblica italiana, Legion d’onore conferitale da François Mitterrand, tra le opere più recenti il museo di arte asiatica di San Francisco (spettacolari le soluzioni antisismiche: la struttura portante poggia su enormi ”rocchetti” di rame e gomma tanto che il palazzo può resistere a un terremoto di grado 8,3 oscillando su se stesso di un metro e mezzo senza danni, risultato fondamentale se si pensa alle ceramiche e porcellane esposte, vedi Federico Rampini su ”L’Espresso” del 13/8/2002)

AULENTI Gae Palazzolo della Stella (Udine) 4 dicembre 1927. Architetto. Laurea ad honorem in Belle Arti alla Rhode Island School of Design di Providence, cavalierato di Gran Croce della Repubblica italiana, Legion d’onore conferitale da François Mitterrand, tra le opere più recenti il museo di arte asiatica di San Francisco (spettacolari le soluzioni antisismiche: la struttura portante poggia su enormi ”rocchetti” di rame e gomma tanto che il palazzo può resistere a un terremoto di grado 8,3 oscillando su se stesso di un metro e mezzo senza danni, risultato fondamentale se si pensa alle ceramiche e porcellane esposte, vedi Federico Rampini su ”L’Espresso” del 13/8/2002). «Interior decoratrice. Veneta di nascita, ma calabrese di razza, la signora dell’architettura italiana s’è laureata tardi, a 32 anni, quando già lavorava da un pezzo alla rivista ”Casabella”, tempio dell’italian style. L’anno dopo, nel 1960, diventa l’assistente di Giuseppe Samonà e inizia una carriera eclettica e versatile a raggio cosmopolitico. Designer di grido della Fiat e dell’Olivetti (sua la lampada pipistrello), diventa scenografa di Luca Ronconi al laboratorio di Prato, costumista per il Wozzeck di Alban Berg alla Scala, musa di Karlheinz Stockhausen, inventandosi scene e costumi per la prima del Donnerstag aus licht e alla fine viene promossa ”interior decorator” di casa Agnelli. Forte di tanta universale reputazione, nel 1980 vince a Parigi il concorso per trasformare il Gare d’Orsay in un museo e si sbizzarisce nell’ornato color miele dei padiglioni in forma di tombe egizie e negli intrecci di rame e peperino, subito assurti a sigla di certificazione del gusto per il vippaio brianzolo, mentre la signora conquista il restauro di Palazzo Grassi a Venezia. Dopo la batosta subita per la ricostruzione della Fenice (l’appalto assegnato all’Impregilo è stato poi vinto da Aldo Rossi) e il sabotaggio di cui fu oggetto come presidente dell’Accademia di Brera, la signora ha ritrovato la fiducia nelle istituzioni, accettando dal comune di Milano, governato dalla destra, l’incarico per ridisegnare piazza Cadorna e l’accesso alla Stazione Nord per il Malpensa express. Parla pochissimo, fuma in continuazione e veste solo tailleur pantaloni in foggia maoista. Aveva arredato la casa di Craxi, ma anche la prima terrazza di Eugenio Scalfari» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 3/10/1998). «[...] severa, e rigorosa, maschile nei tratti [...] i capelli tagliati come quelli dell’Auriga di Delfi [...] La ”magicienne des formes”, come la chiamano in Francia, miscelatrice di simmetrie e asimmetrie [...]. La ”pendolare del bello”, secondo un’altra etichetta, l’architetto della ragione, è una donna insieme aspra e cordiale, di semplicità francescana se non claustrale. Se le chiedi qual è il suo odore preferito, quello più inebriante, non ha esitazioni: l’odore del cemento. Per lei è un profumo. [...] Il suo punto d’arrivo, quello di tutta una vita, dice, è la semplicità: ”Credo sia uno dei traguardi più difficili, perché il problema è complesso. Ma attenzione all’equivoco: non si tratta di semplificazione, di rendere le cose limitate. Bensì l’esatto contrario: la semplicità è carica di tutti i contenuti. E anche dei sentimenti”. [...] Dal particolare al generale, dal cucchiaio alla città era il motto del suo maestro Ernesto Nathan Rogers. Se la sua città è il Museo d’Orsay o il Museo d’arte asiatica di San Francisco che racchiude sei millenni di storia, qual è il suo cucchiaio? ”Guardi, non mi interessa tanto la formula quanto l’attitudine rispetto a un lavoro. Proprio mentre facevo Orsay la Louis Vouitton mi chiese di disegnare questo orologio che ho al polso”. una grande ”cipolla” ma di forma appiattita con quadranti concentrici, ormai fuori commercio: ”Volevano un tipo di orologio che esprimesse internazionalità, viaggi, lune, e tutta la definizione legata ai tempi e ai luoghi. Ecco: l’intensità che si mette in un lavoro è la stessa, lo stesso impegno. Che si tratti di progettare un orologio o un museo”. Boston, Parigi, Caracas, Barcellona, Istanbul, Berlino, Siviglia... Perché è così difficile lavorare in Italia? ”Per un motivo molto semplice. L’architettura delle opere pubbliche non è l’architetto che la determina, ma sono gli amministratori. O comunque: un’integrazione fra buoni amministratori e buoni architetti. In Italia ci sono bravissimi architetti ma non ci sono buoni amministratori. In Italia si possono anche vincere dei concorsi, ma poi l’opera spesso non si realizza”. Da sempre preferisce le opere pubbliche a quelle private: i musei, le biblioteche, i palasport [...] Se i suoi musei sono sui libri di architettura, un grande riserbo circonda invece le case miliardarie che ha disegnato o ristrutturato, l’ultima - in ordine di tempo - a Marrakech: ”Il segreto è appropriarsi dei luoghi, delle definizioni, del modo di vivere e di tutto quello che è rappresentato dal cliente”. Chi per esempio? ”Fa parte dell’etica professionale non rivelare i nomi”. Le pupille si fanno più strette. [...] ”Certo, sono severa, è la mia natura. Una forma di autodisciplina, altrimenti mi disgrego. La severità è una chiave indispensabile per affrontare problemi immensi, un’attitudine necessaria. Questo non vuol dire che non ci divertiamo, tutt’altro [...] La severità insieme alla pazienza è una delle virtù cardinali che permettono una buona lettura della realtà e quindi una buona sintesi [...] Non esiste la lampadina che si accende, il lampo di genio, l’idea improvvisa, l’intuizione. Si tratta piuttosto di qualcosa che matura giorno dopo giorno. Un processo lento, sempre accompagnato da quell’ansia di cui dicevamo. L’ansia deriva dalla ricerca, che può essere intima, quando è del singolo architetto, oppure di gruppo, della squadra [...] il progetto appena realizzato appartiene già al passato. Io penso sempre: fuori uno. Anzi, ha presente Fiorello quando dice: fatto! Così: fatto! Uno di meno”. Quanto alle critiche, ”sono ingiuste solo quando non sono serie e non sono profonde. Io ho imparato molto presto che quando su un’opera si riscuote il 50 per cento di pareri favorevoli e il 50 contrari è un successo. Vuol dire che c’è discussione. Un plebiscito mi metterebbe in agitazione, piacere a tutti non va bene”. Flaubert disse: ”Gli architetti! Fanno le case e si dimenticano le scale”. Chissà se Gae Aulenti concorda. ”In certi casi sì. L’architettura è un’arte molto complessa. Un quadro è chiuso in un museo: sta a me scegliere se voglio andarlo a vedere. Un’opera d’architettura invece la devo frequentare, usare, visitare, percorrere: per questo motivo la critica può essere molto più forte e molto più pertinente”. [...] Ha sempre detto di essersi iscritta alla facoltà di architettura perché voleva ”intervenire sulla realtà”. [...] ”[...] Credo molto nell´integrazione delle arti, la letteratura, la musica, la pittura. Saper vedere, saper riconoscere, saper scambiare. La cosa più importante è sempre lo scambio fra le varie discipline [...] Quello che manca nelle città italiane è il senso di collettività. Una città che si rappresenta bene è una città più funzionale. Il cittadino si sente parte di un insieme, con rispetto e con orgoglio. In Italia questa cosa non c’è. In Francia c’è. A Barcellona c’è. A San Francisco c’è” [...]» (Laura Laurenzi, ”la Repubblica” 17/4/2005). «Leggo molto perché è un alimento del quale non riesco a fare a meno da quando ero piccola e questo riempie i miei momenti liberi […] Sì, mi considero un intellettuale, non si può fare architettura senza conoscere la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura […] Mi sono sempre interessata all’arte soprattutto contemporanea. Dopo il Museo d’Orsay a Parigi mi sono procurata la cosiddetta specializzazione che ha fatto esplodere altri incarichi come il Musée d’Art Moderne al Centre Pompidou di Parigi e poi il Palazzo Grassi a Venezia e il Museo d’Arte Catalana a Barcellona, poi a Istanbul il museo d’Arte Contemporanea […] molto difficile lavorare perché anche se si vincono concorsi non è detto che il lavoro si faccia, o si fa con tempi di decisione lunghissimi […] Della moda mi incuriosisce molto quello che fanno i designer, che conosco bene come Armani o Miuccia Prada. Mi interessa vedere qual è il filone di ricerca. Mi interessa pochissimo come apparenza […] Ho Milano come città di riferimento che mi piace perché è una città dove non ci si ferma. Si viene per partire, e si parte per ritornare. Mi piacciono molto Parigi e New York. Ha Parigi faccio passeggiate lunghissime. l’unica città dov’è naturale camminare» (Alain Elkann, ”La Stampa” 5/7/1998). «In una certa Milano laureata in birignao tutti la chiamano ”la Gae”, specie quelli che non la conoscono […] Signora di gusto e di classe, è tra le tre o quattro architette al mondo assurte al pantheon professionale. […] Domanda: perché così spesso divide gli animi? Eccede forse in narcisismo? il suo linguaggio, di schietta impronta razionalista, che oggi appare datato? Il suo approccio ”pesante” al restauro architettonico è meno à la page? Si tratta di un architetto completo o di una specialista in musei? Insomma: fatta salva l’apprezzata designer degli anni Sessanta-Settanta, è sopravvalutata? ”Sopravvalutata? No”. la netta risposta di François Burkhardt, uno dei maggiori critici europei, direttore di ”Domus” e già tra i curatori del Centre Pompidou: ”La sua scuola è ottima, il razionalismo di Ernesto Rogers, di ”Casabella’, con i giovani Gregotti e Rossi. La sua cultura è solida, è curiosa d’arte, teatro, letteratura. Forse il suo linguaggio appare oggi un po’ schematico e asciutto. Ha preso il razionalismo come punto d’arrivo anziché come punto di partenza. Ma Orsay è un’opera importante, un tema difficile risolto brillantemente. Anche se all’asciuttezza del linguaggio ha aggiunto un po’ di poesia il suo collaboratore di allora, Italo Rota”. A Parigi, nell’86, l’inaugurazione del nuovo museo dell’800 scatenò vivaci polemiche, la accusarono di aver creato ”una necropoli faraonica”, con quei gran volumi pietrosi che si accavallano, distraendo l’attenzione dalle opere esposte […] Ha fatto grandi lavori, va detto, perché ha vinto concorsi di progettazione. Ma certo non le nuoce la sua capacità di gestire conoscenze di elevato peso specifico. […] A Milano il mito della Gae è solido. Da anni vive e lavora in un ”carinissimo” anzi ”charmosissimo” hotel particulier dietro al bar Giamaica. Il suo nome è legato a stagioni felici della città. Dopo il matrimonio con un architetto fu legata a lungo a Carlo Ripa di Meana, ed era la Milano riformista del club Turati, delle Triennali, della Casa della Cultura. Nei Settanta operò con successo come scenografa per la Scala e altri teatri, con Luca Ronconi, Abbado, Pollini. A mezzanotte capitava da ”Oreste”, in piazza Mirabello, come Eco, come Sottsass, come altri. I suoi clienti privati non sono mai stati banali. Ha sistemato la casa di Leopoldo Pirelli a Portofino ma anche quella in città di Bettino Craxi, allora leader in ascesa: un lavoro che oggi disconosce e non figura nel suo curriculum ufficiale. Dopo Mani pulite si è schierata più volte con i candidati (sconfitti) della sinistra […] Veste minimal, ha carattere duro, gesti maschili, tacchi bassi. ”Se vuole” così un amico ”sfonda i muri a testate”. […] Dagli anni Settanta ha più di una volta offerto il proprio know-how alla famiglia Agnelli. Dopo l’intervento dell’inglese Russell Page, realizzo lei tutta la zona piscina nel parco di Villa Agnelli a Villar Perosa. Si è occupata, sempre per l’Avvocato, degli interni della grande casa di Suvretta, a Sankt Moritz. […] ”Più che per la qualità dei suoi contatti personali”, dice Vittorio Magnago Lampugnani, storico dell’architettura del Novecento, cattedra a Zurigo, ”ha avuto un vantaggio dall’essere donna in un ambito professionale maschilista. emersa come donna-alibi, tra gli architetti della sua generazione, e ha usato la sua chance oculatamente”» (Enrico Arosio, ”L’Espresso” 16/9/1999).