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 2002  febbraio 15 Venerdì calendario

Bush George

• Walker New Haven (Stati Uniti) 6 luglio 1946. Politico. Ex presidente degli Stati Uniti (2001-2009). Repubblicano, figlio di George. Già imprenditore nel settore petrolifero e governatore del Texas (eletto nel ”94 e nel ”98). Nel 2000 fu riconosciuto vincitore dal suo rivale democratico Al Gore 36 giorni dopo le controverse elezioni del 7 novembre, conclusesi con un testa a testa in Florida seguito da un contenzioso giudiziario su cui si pronunciò anche la Corte suprema. Propugnatore di un «conservatorismo compassionevole», aveva basato il suo programma elettorale su alcuni obiettivi fra cui riduzione delle tasse, piano di difesa spaziale, aumento dei fondi per le forze armate, uso limitato dei militari all’estero. In politica estera, in risposta all’attentato dell’11 settembre 2001 contro Torri gemelle e Pentagono, confermò la linea dura nel quadro della lotta al terrorismo internazionale e della cosiddetta dottrina della «guerra preventiva»; nel 2001 lanciò l’offensiva contro il regime dei talebani in Afghanistan e nel marzo 2003 decise l’intervento militare in Iraq, ritenuto, a torto, in possesso di armi di distruzione di massa. Nel novembre 2004 fu rieletto presidente dopo la vittoria elettorale sul senatore democratico John Kerry (Garzantina Universale 2008) • «Nessuno storico oserà mai affermare che George W. Bush avesse nel novembre del 2000 l’incondizionata fiducia dei suoi connazionali. L’America assistette senza entusiasmarsi a un duello fra due ”pesi medi” e ogni elettore votò, come accade in queste circostanze, per quello che egli giudicava il male minore. Per la sua educazione, la sua modesta cultura, i suoi legami con la destra cristiana e con i ”poteri forti” dell’economia americana, Bush suscitava in alcuni ambienti una certa diffidenza. Al Gore vinse infatti con un margine non indifferente: 500.000 voti. Ma le anacronistiche stravaganze del sistema elettorale americano e una discutibile sentenza della Corte Suprema dettero la vittoria al suo avversario. Quando mise piede alla Casa Bianca George W. dovette sentirsi ”miracolato” ed evitò, per un certo periodo, di sfidare la provvidenza. Ne avemmo la prova allorché i cinesi costrinsero un aereo spia americano ad atterrare sul loro territorio e lo trattennero sino a quando non l’ebbero svuotato del suo prezioso bagaglio elettronico. Anziché proferire minacce e negoziare, Bush ascoltò i consigli del suo segretario di Stato, Colin Powell, e negoziò un onorevole compromesso. Avrebbe continuato a governare prudentemente, senza dare troppa retta ai suoi bellicosi consiglieri? Sappiamo ora che la preparazione della guerra contro l’Iraq cominciò poco dopo l’elezione. Ma l’avvenimento che ebbe su Bush l’effetto di un micidiale reagente chimico fu l’11 settembre. Capì di dovere dare una risposta alle paure dei suoi cittadini e decise di essere se stesso, senza remore e prudenze. Assistemmo nei mesi seguenti alla grossolana accentuazione di tutti gli aspetti del suo carattere e del suo stile: la religiosità ostentata e vibrante, il decisionismo spavaldo, la dialettica sbrigativa e semplificatrice, l’oratoria sommaria e martellante. Persino la sua modesta statura divenne un punto di forza. Quando vedo Bush incedere su un palcoscenico, impadronirsi di un microfono, scendere da un elicottero o marciare tra la folla degli ammiratori, penso a un attore americano degli anni Trenta, James Cagney, piccolo, tozzo, carico di energia, bravissimo nella parte del ragazzaccio generoso, sventato e un po’ teppista. Il personaggio è piaciuto. Nei tratti del nuovo Bush gli americani hanno ritrovato una combinazione dei tipi umani che appartengono alla leggenda e al mito della nazione: l’uomo della frontiera, il marine, lo sceriffo, il poliziotto di quartiere, il businessman audace e intraprendente, lo spietato difensore della legge, il ministro della fede devoto e rigoroso. Molti di loro dovettero accorgersi che il presidente era diventato una caricatura americana. Ma nei grandi drammi della storia è opportuno che gli attori aumentino il volume della voce, accentuino il trucco, esagerino i gesti e i movimenti. Per il dramma che si recitava allora di fronte alla platea dell’opinione pubblica degli Stati Uniti (’L’America contro il terrorismo”) Bush era l’attore giusto. I suoi connazionali lo ricompensarono con altissime percentuali di consenso (più del 70%) e applaudirono tutte le sue decisioni e iniziative: il Patriot Act (la legge che limita fortemente i diritti civili e le garanzie legali dei cittadini e degli stranieri), i tribunali militari, la guerra afghana, la detenzione dei prigionieri nel carcere di Guantanamo, la diplomazia del fatto compiuto, il duro contenzioso con gli alleati recalcitranti, la guerra irachena. Agli occhi di una larga parte del Paese nessuno sembrava altrettanto adatto a garantire la sicurezza della nazione. Passarono in seconda linea per molto tempo gli errori, le negligenze, le mezze verità e le grossolane esagerazioni della presidenza Bush: il saccheggio di Bagdad dopo l’occupazione americana, l’inutile ricerca delle armi di distruzione di massa, persino gli scandali del carcere di Abu Ghraib. Il favore dell’’audience” cominciò a calare negli ultimi mesi del 2003. Gli americani sono spettatori volubili e impazienti. Quando fu chiaro che in Iraq, dopo la vittoria militare contro l’esercito di Saddam, era scoppiata una nuova guerra, molto più difficile e sanguinosa della prima, la platea cominciò a brontolare. Quando gli spettatori sommarono le bugie e le gaffes dell’Amministrazione, il campo di Bush cominciò a diradarsi. Se il clima del teatro cambia, i toni alti delle recitazioni istrioniche diventano vuoti e stridenti. Bush ha continuato a fare la sua parte, ma le battute sono diventate col passare del tempo, per una parte del Paese, sempre meno convincenti. Il calo di popolarità, tuttavia, non gli ha impedito di vincere. [...]» (Sergio Romano, ”Corriere della Sera” 4/11/2004) • «’Bush è il primo presidente in carica che si ripresenti agli elettori non correndo sulla base di quello che ha fatto, ma sulla base di quello che è”, ha scritto E. J. Dionne, studioso di elezioni presidenziali. ”The man is the record”, la persona è il bilancio e dunque le Presidenziali ”04 sono state un referendum su di lui. [...] un uomo che aveva cambiato nella propria vita ben tre diverse Chiese - nacque Episcopale, divenne Presbiteriano, ora si confessa Metodista - è [...] il punto dal quale deve partire [...] il bilancio di una presidenza che cominciò nella illusione della ”fine della storia”. [...] Fu nelle ore successive all’11 settembre 2001 che scattarono per il 43esimo presidente le manette della coerenza. Fino a quel giorno, dall’insediamento il 20 gennaio precedente dopo la incerta legittimità della sua vittoria elettorale, Bush era stato un presidente senza mandato, brancolante entro una mediocrità che aveva seminato molti dubbi sulla sua robustezza intellettuale e sulla sua coerenza. Dopo avere promesso una politica estera ”umile”, si era lanciato in atti sprezzanti come il rifiuto del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas, della corte di giustizia internazionale o del trattato anti-missile con i Russi. L’economia interna, molto prima che arrivassero i terroristi a offrire un tragico alibi, scivolava verso una recessione che era già in atto da otto mesi, e stava rapidamente divorando quei 5 trilioni di dollari che avrebbero dovuto giustificare la grande bonanza fiscale. Non ebbe luna di miele. Anzi, fu guardato spesso come un usurpatore, un sovrano illegittimo, ”il Presidente accidentale”. Alla fine dell’estate 2001, l’indice di popolarità era inchiodato a un pessimo 50 per cento. Alla fine di quel settembre era schizzato oltre l’80%. Un popolo infelice della propria condizione materiale aveva trovato in lui il padre putativo che aveva saputo soddisfare quei bisogni immateriali che prima di lui Ronald Reagan aveva saputo interpretare così bene. L’eterno figlio, Georgie, era divenuto George suo padre. L’attacco all’Afghanistan dei Taliban accompagnato da attestati di solidarietà di un mondo che si autoproclamava ”tutto americano” fu la conferma della promessa e insieme la costruzione della trappola nella quale sarebbe poi caduto prigioniero. Nell’enfasi che i teologi dell’’imperialismo buono”, i neo conservatori, gli avevano messo sulla bocca, Bush si impegnò a perseguire il terrorismo ”ovunque si trovasse”, creò una sciagurata figura retorica chiamata l’Asse del Male, soprattutto si abbandonò a un impegno fatale, quello di considerare obiettivi legittimi anche tutte quelle nazioni che non fossero state dalla parte sua, il ”chi non è con noi è contro di noi”. La necessità di continuare a sfamare il desiderio immateriale di rassicurazione e di azione, di trasformare l’immaterialità delle promesse nella concretezza dei risultati lo avrebbe costretto a invadere e occupare l’Iraq. Fu dunque l’imperativo della moralità coerente a spingere Bush alla immoralità della guerra incoerente. [...]» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 3/11/2004) • «Bugiardo e sincero, ignorante e astuto, generoso e rapace, idiota e lucido. George W. Bush [...] è l’incarnazione dell’America di oggi, un paese che non a caso resta indecifrabile per molti europei esattamente come il suo presidente. Nel suo ultimo libro, George. Vita e miracoli di un uomo fortunato (Feltrinelli, 189 pagine, 20 euro), Zucconi racconta le vicende politiche e umane che hanno portato il rampollo di una delle famiglie più importanti degli Stati Uniti, a diventare l’uomo più potente del mondo. [...] Forse la definizione più sintetica per descrivere questo personaggio fu coniata da Molly Ivins, una giornalista texana: ”George è come un giocatore di baseball nato direttamente in terza base, ma convinto di esserci arrivato per merito suo, con un buon colpo”. La ”terza base” di Bush, naturalmente, è la sua famiglia. Grazie a essa ebbe l’opportunità di frequentare la Casa Bianca per 12 lunghi anni, dal 1980 al 1992, alla corte del padre che prima fu vice di Ronald Reagan (1980-88) e poi presidente. Questo lungo periodo di apprendistato, che certo non gli ha dato una solida cultura politica in senso tradizionale, lo ha però addestrato a muoversi come un condottiero nella ragnatela di poteri forti che la sua famiglia ha tessuto per tre generazioni. In questo ambiente frequentato da petrolieri e segretari di Stato, sceicchi arabi e miliardari, George W. ha costruito una sua etica personale basata sulla lealtà al clan. Tutti sanno che chi fa parte della famiglia e si dimostra amico fedele non sarà mai abbandonato. Tra tutti i suoi uomini dell’amministrazione, solo Paul O’Neill, ex ministro del Tesoro, è stato fino a oggi ripudiato e spinto alle dimissioni. Non era mai entrato veramente nella squadra, aveva idee autonome sull’economia e le tasse, e le esprimeva liberamente: è stato sostituito. George W. non abbandona mai gli amici ma non ha pietà per i nemici. Zucconi coglie il punto quando scrive che ”i Bush sono più devoti al Dio vendicativo e implacabile del Vecchio Testamento che al Cristo del Nuovo”. Le prove di questa loro religiosità al limite del fanatismo sono molteplici. Ma Bush va oltre. Mostrò una sua particolare tendenza al fondamentalismo quando era governatore del Texas e accumulò un numero record di sentenza di morte eseguite. In quelle occasioni non manifestò mai un attimo di compassione, neppure nei casi più drammatici e penosi, quelli che commossero tutta l’America, e non concesse mai una sola grazia. stata questa vocazione all’estremismo ideologico a spingerlo a invadere l’Iraq? Molti sostengono che Bush fosse ossessionato dal desiderio di vendetta verso Saddam Hussein perché questi aveva cercato di fare uccidere suo padre. Altri dicono che fu conquistato dalla strategia apocalittica dei neoconservatori che ritengono necessario mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente per trasformarlo in una costellazione di democrazie jeffersoniane. Zucconi suggerisce che il presidente sia stato spinto a questa drammatica scelta da un cocktail micidiale di ingredienti: la straordinaria supremazia americana nel mondo, l’ideologia aggressiva degli uomini da cui si è circondato e la sua anima di guerriero vendicatore. La nuova dottrina della guerra preventiva sembra coniata apposta per armare il suo lugubre decisionismo. Bush è un accidente della storia destinato a essere cancellato quando sarà uscirà alla Casa Bianca? Zucconi sostiene di no. Più che un’eccezione, il presidente in carica rappresenta un eccesso. Dopo cinquant’anni di guerra fredda, gli Stati Uniti possono ormai esprimere appieno la loro supremazia mondiale e i prossimi presidenti, magari democratici e laureati a pieni voti nelle migliori università, non seguiranno una strada molto diversa da Bush. Speriamo che in questo Zucconi si sbagli» (Enrico Pedemonte, ”L’espresso” 8/4/2004) • «Per gli agenti del servizio segreto che lo proteggono è ”The runner” […] Fin da bambino è stato, e rimane, uno scavezzacolllo […] La leggenda di ”Boy George” è alimentata dalle sue gaffe: non è un oratore, confonde la Slovenia con la Slovacchia e, per quanto riguarda l’Italia – ma non ce lo hanno confermato – Fini con Dini […] La verità, secondo lo storico della Casa Bianca Stephen Hess, è che appartiene alla specie – mai in via d’estinzione – dell’eterno ragazzo. E vi appartiene per reazione: il suo vero male non sarebbero i calzoni corti, ma il complesso d’Edipo, il senso d’inferiorità verso un padre da lui considerato un mito. Non un padre padrone: George Sr., l’ex presidente, è un politico non di potere ma di consenso, tutto famiglia. Ma ha alle spalle un carnet impressionante: eroe di guerra (fu pilota di bombardieri nella Seconda guerra mondiale, pluridecorato), deputato, ambasciatore all’Onu, direttore della Cia e, nella vita privata, petroliere. Dentro George jr., in altre parole, si nasconde un bambino segreto, ossessionato dal timore di deludere il padre. E il suo soprannome, ”Il corridore”, alluderebbe al fatto che dalla nascita corre al suo inseguimento, ma senza raggiungerlo mai. La prolungata adolescenza sarebbe la sua valvola di sicurezza, il suo rifugio. L’aneddotica di famiglia più riservata conferma la tesi di Hess. Da bambino vede nel padre soprattutto un uomo d’azione: un ex campione di baseball – giocava per la squadra dell’università di Yale – e uno spericolato paracadutista (l’ultima volta si è lanciato dall’aereo a 77 anni). Per questo, invece di studiare e leggere, ”Boy George” fa sport, qualsiasi sport e, come confida la moglie Laura, quando gli chiedono che cosa sia una bibliografia risponde: ”Un testo della Bibbia”. Il suo sogno è di diventare un campione di baseball […] Le sue imprese? Mettere i compagni ko nelle gare a chi resiste di più al bere e a chi ruba più mutandine alle ragazze. Quando si stabilisce a Midland, nel Texas, la più ricca delle comunità Usa – sono quasi tutti petrolieri come papà George sr. – la sua passione cambia: pilotare i caccia nella riserva nazionale. C’è chi dice lo faccia per sottrarsi al servizio di leva nel Vietnam, ma stando a Hess, il giovane è in realtà anche stavolta in gara col padre. Sono ”anni selvaggi da top gun” come ammetterà egli stesso: non cessa di bere, qualcuno dice che ”sniffa” anche coca, il suo soprannome si trasforma in ”Playboy George”. Solo nell’86. quasi dieci anni dopo le nozze con Laura, scoprirà la religione e abbandonerà la bottiglia. […] Hess sostiene che il bambino esplode in George jr. nel 1992, quando il padre viene cacciato dalla Casa Bianca da Clinton. E’ il suo mito che crolla e in quel momento giura di ricostruirlo. Due anni dopo si candida governatore del Texas contro quello in carica, la formidabile Ann Edwards, uno dei leader democratici che hanno deriso suo padre – è nato ”con la gaffe d’argento in bocca” ha dichiarato – e lui vuole regolare i conti. Il Texas ride, pensa che il bambino verrà fatto a pezzi. Tra la sorpresa generale vince, e vincerà di nuovo nel 1998» (Ennio Caretto, ”Sette” n. 42/2000) … «Specialmente in Europa, alcuni articoli lo dipingono come una figura messianica, religiosa, che conferisce cariche nelle alte sfere soltanto ad altri cristiani evangelici, e questi articoli riferiscono che gli incontri di preghiera sono frequenti quasi quanto gli incontri politici. […] Non c’è alcun dubbio sul fatto che è un uomo autenticamente religioso, che da quando è stato nominato presidente è sempre stato molto disponibile a parlare della sua fede. Quando era in campagna elettorale qualcuno gli chiese chi fosse il suo filosofo preferito, ed egli rispose: ”Gesù Cristo, perché ha cambiato il mio cuore”. Suo padre era membro della Chiesa episcopale, ma praticava una forma di religiosità molto anemica, tipica del New England. Il figlio, membro della Chiesa metodista, pratica una forma di religiosità molto più impegnata e tipica del Sud. E’ stato molto sincero quando ha riferito di aver avuto un grave problema di alcol fino ai 40 anni, età in cui riscoprì la fede e abbandonò il vizio del bere per sempre. Pensa che quell’episodio abbia trasformato radicalmente la sua vita: ”C’è un’unica ragione per la quale mi trovo nello Studio Ovale: ho trovato la fede. Ho trovato Dio. Sono qui grazie al potere della preghiera”, ha detto. ”Se la gente vuole davvero conoscermi - dichiarò durante la sua campagna elettorale per la presidenza - deve comprendere che la mia devozione al Cristo è parte integrante della mia vita”. Le invocazioni a Dio suonano più inusuali alle orecchie europee di quanto non suonino a quelle americane, in parte per una differenza di tradizioni culturali. Soltanto il 20 per cento degli europei dichiara infatti di prendere parte ai servizi religiosi ogni settimana, mentre in America è il 50 per cento della popolazione a dichiararlo. […] La fede personale di Bush non è né fanatica né messianica, secondo quanto ha rilevato il giornalista Joe Klein (autore del romanzo Primary Colors) che ha intervistato a lungo il presidente: ”Non manifesta mai un accenno seppure minimo al dogmatismo o al concetto di destino, al contrario: la sua fede è umile e pacata”. Il problema non è tanto il fatto che sia religioso, ma che la sua visione del mondo sia semplicistica, scevra di profondità. Nel suo libro intitolato The Right Man (’L’uomo giusto”), l’ex speechwriter David Frum, uno di coloro che gli preparano i discorsi, scrive che presenta fondamentalmente i seguenti difetti: ”E’ impaziente e facilmente preda della collera; talora poco scrupoloso, addirittura dogmatico; spesso privo di curiosità e pertanto male informato; più convenzionale nel ragionare di quello che si ritiene debba essere un leader. Ma a fare da contraltare ai difetti, vi sono le sue virtù: il decoro, l’onestà, la rettitudine, il coraggio e la tenacia”. Sia i difetti che le virtù costituiscono l’altra faccia di una medesima caratteristica: l’incapacità e l’inadeguatezza a cogliere le sfumature, a considerare i vari aspetti di uno stesso problema. Pertanto se il Dio di Lincoln era misterioso e imprevedibile, Bush non ha dubbi: Dio e la ragione sono dalla sua parte. David Frum racconta come la sua espressione ”l’asse dell’odio’ sia stata trasformata dal capo dei suoi speechwriter nell’espressione ”l’asse del male”, quindi con un ancor più palese riferimento alla prospettiva religiosa. ”Questo non è un discorso politico”, ha stigmatizzato Elaine Pagels, del Dipartimento di Religione dell’Università di Princeton. ”Questo è il linguaggio che usano i fedeli bigotti, cristiani e musulmani. Quando parla di ”asse del male’ egli colloca tutti coloro che non sono d’accordo con lui nel regno del male”. In realtà questo più che essere espressione della religiosità di Bush, è una forma riconducibile alla religiosità laica tipicamente americana, quella del Destino Manifesto, che servì a giustificare la guerra tra Messico e America. Inoltre Bush non tiene conto della lezione abbozzata da De Toqueville, quella secondo cui l’irrefutabile religiosità della vita americana era possibile grazie alla rigorosa separazione tra Stato e Chiesa. Bush infatti sta introducendo la religione in luoghi dai quali è sempre rimasta esclusa. Ha promosso ”iniziative basate sulla fede” grazie alle quali la carità religiosa privata andrà gradualmente a sostituire le organizzazioni statali che assicurano i servizi sociali. Promettendo che le istituzioni religiose riceveranno finanziamenti dal governo per le strutture che espleteranno sia servizi religiosi che sociali egli renderà di fatto molto più difficile tenere distinte le due cose. Uno dei centri per il trattamento delle tossicodipendenze che Bush ha elogiato nel suo Discorso sullo Stato dell’Unione non sembra promuovere nulla più che la religione. ”Noi crediamo che il recupero inizi presso la Croce - si legge in un loro opuscolo - Per spezzare le catene della dipendenza, noi facciamo affidamento solo sulla Parola di Dio”. Bush sta cercando di spingere coloro che si oppongono all’aborto a ricorrere ai giudici federali e la sua promozione della religione, così agguerrita, ha a che vedere sia con l’opportunità politica che si presenta, sia con la sua fede personale. Nel 2000 l’82 per cento dei cristiani conservatori ha votato per Bush, ma Karl Rove, capo stratega politico di Bush, ha dichiarato che circa altri cinque milioni di loro sono rimasti a casa e non hanno votato affatto. ”Dobbiamo investire moltissimo tempo e molte energie per riportarli alla politica”, ha dichiarato Rove. Questo significa, presumibilmente, introdurre ancora più religione nella politica, con un ulteriore rischio di erodere il muro che le tiene separate» (Alexander Stille, ”la Repubblica” 6/3/2003).