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 2002  febbraio 21 Giovedì calendario

Cuper Hector

• Chabas (Argentina) 16 novembre 1955. Allenatore. Dal 2008 sulla panchina della Georgia. Con il Valencia perse due finali di Champions League (1999/2000, 2000/2001), con il Maiorca una finale di coppa delle Coppe (1998/1999), con l’Inter uno scudetto all’ultima giornata (2001/2002, quando finì terzo, secondo nel 2002/2003). Nel 2008 qualche giornata sulla panchina del Parma (ma fu esonerato prima dell’ultimo decisivo match contro l’Inter). «[...] L’eterno secondo, l’ammiraglio delle mille battaglie perse, l’eroe omerico che proprio da Omero aveva tratto il suo nome - Ettore - e l’inesorabile vocazione alla sconfitta. [...] l’allenatore del dialogo e della pacca sullo stomaco, ma soprattutto della sconfitta sempre accettata con dignità. In due anni e qualche mese in Italia, gli sono stati affibbiati aggettivi foschi: ”cupo”, ”triste”, persino ”portasfiga”. La calunnia è un venticello, che nel suo caso è stato reso ancora più impietoso dalla spietata evidenza numerica: un secondo e un terzo posto, una semifinale di Champions League, e tante partite perse per tanto così, quando anche la sua faccia diffidente si stava predisponendo alla gioia. Così, alla fine, forse ha cominciato a crederci anche lui, e ci ha costruito sopra il suo personaggio, scettico e spigoloso, triste solitario y final. Non era nato perdente, ma quello era diventato nell’immaginario collettivo, e se ne era fatto una ragione. Come quel personaggio pirandelliano che, additato dalle malelingue come portascalogna e stanco di ribellarsi a una simile diceria, chiede che gli venga ufficialmente riconosciuta questa sua peculiarità, in modo da ottenerne se non altro un qualche riconoscimento sociale. [...] la fama di Cúper - è bene ricordarlo - veniva da lontano. Dall’Argentina, concretamente, e da quel lontano 1994 in cui era riuscito a condurre l’Huracán a uno storico, e sinistramente premonitore, secondo posto nel torneo di Clausura. Ai più, quella prodezza sembrò un mezzo miracolo, e in effetti era proprio così, anche perché quelli interi - come si sarebbe verificato in seguito - proprio non gli riuscivano. Dopo una breve tappa al Gimnasia La Plata, comunque, Cúper traslocò in Spagna, fortemente raccomandato da Carlos Timoteo Griguol, suo mentore che qualche anno dopo sarebbe a sua volta emigrato al Betis uscendo a pezzi dal confronto con l’allievo di un tempo. Proprio in Spagna Héctor Cúper dimostrò che l’impresa a metà compiuta al timone dell’Huracán era stata tutt’altro che casuale. Sulla panchina del neopromosso Mallorca, Ettore ottenne subito un quarto posto e la finale di Coppa del Re, che naturalmente perse, contro il Barcellona ai rigori. L’anno dopo, arrivò la prima vittoria - la Supercoppa di Spagna [...] Ma la vera leggenda si forgiò dopo: tre finali europee perse consecutivamente (di cui due di Coppa Campioni con il Valencia) e soprattutto il famoso e terribile cinque maggio del 2002, che sarebbe di cattivo gusto imputargli e che tuttavia fece saltare definitivamente il tappo del sospetto e delle maldicenze. E poi ancora un secondo posto (e che altro, se no?) in campionato, e una semifinale di Coppa Campioni col Milan persa senza essere sconfitti. [...]» (Andrea De Benedetti, ”il manifesto” 1/6/2005). «Perdente? Dipende con chi ti comparano. E poi bisogna distinguere tra perdente e uno che non vince. Se mi dicono che non ho vinto, bene, non posso sostenere il contrario. Ma se mi danno del perdente, sbagliano. Perché il perdente è un uomo che molla. E io non sono certo così» (Alessandro Pasini, ”Corriere della Sera” 18/8/2003). «[...] non ha conquistato nessun trofeo determinante, pur avendo portato per due volte consecutive il Valencia alle finali europee, vinto la prima volta da un mediocre Real e la seconda da un Bayern di Monaco sceso in campo per calpestare la paura scenica dei giocatori valenzani mezzo morti dalla paura del successo. Ammirato dalla critica, ubbidito dai giocatori, non del tutto accettato dal pubblico, è un allenatore diverso e distante che non vende simpatia e talvolta ricorda quegli scrittori entusiasti della Letteratura che tuttavia odiano il lettore, seccati dalla sua dipendenza. I dirigenti credono nel suo carisma autoritario e nel suo lavoro serio, ma ne temono il sistema di segnali, poco ben disposto a sorridere ai tifosi, ai giornalisti e addirittura ai bambini. Era un allenatore ambito da diverse squadre pronte a soffiarlo all’Inter [...]» (Manuel Vazquez Montalban, ”la Repubblica” 14/5/2002). «La prima impressione è che giochi in difesa. In generale, non è uno che vende fumo e non sembra nemmeno ansioso di piacere. L’ultima impressione è che potrebbe lasciarsi andare, aprirsi di più [...] che avrebbe più cose da dire di quante ne dica, che è più profondo e che ancora lo conosciamo poco. [...] ”Lei viene da una famiglia non molto agiata?” gli avevano chiesto. E lui: ”Dica pure povera. Molto povera”. Non è da lì che si parte, ma dalle sue idee sul calcio. [...] Facciamo che esistano due tipi di allenatori: uno dice contiamo solo noi, il nostro gioco, affrontare il Real Madrid o il San Colombano è uguale. L’altro studia varianti in funzione dell’avversario. Cuper come si colloca? ”Le mie squadre devono possedere una forma del gioco, una strategia generale. Ma non si possono ignorare gli altri. [...] Le varianti sono indispensabili e credo che aiutino la squadra a crescere, nella testa. Poi l’esperienza dice che le cose troppo rigide, anche le idee, anche le squadre, si spezzano”. Si sente legato al 4-4-2? ”Più che altro, mi sento legato alla difesa a 4. Protegge meglio dal contropiede, copre di più. Ma quando noi attacchiamo, la difesa è a tre. [...]”. Ha giocato 8 partite in nazionale, con Bilardo, e circa 550 partite nella serie A argentina, segnando 24 gol. Tutti di testa? ”Molti. Ma io ero anche quello che tirava i rigori”. Lo dice con una nota d’orgoglio, non ci tiene a passare per uno scarpone. Tecnici: ne cita sempre due, Griguol e Babington. [...] ”Griguol mi ha allenato al Ferrocarril. Ci faceva correre 15 km per i campi senza bere, si tornava in albergo e niente acqua, solo dopo, razionata dal capitano, e guai a sgarrare. Griguol mi ha insegnato la disciplina, è una parola che a me piace molto eppure ogni volta che la pronuncio sento un po’ di freddo intorno, come se parlassi di un carcere. Per me, la disciplina non intacca la libertà. Babington era l’opposto, cercava il dialogo coi giocatori. L’ho avuto all’Huracan. Io cerco di essere una via di mezzo fra loro”. Viene dalla Spagna. vero che lì si gioca un calcio più bello del nostro? ” vero che c’è più spazio e più gusto per la giocata di fino. In Italia c’è più velocità e più pressione sull’avversario, ma non si può dire che sia un brutto calcio. In Argentina è ancora diverso, lì giocare a un tocco è disdicevole, la gente non capirebbe e nemmeno i giocatori: il pallone va amato, accarezzato, trattenuto, non dato via subito come se scottasse. In Italia chi tiene il pallone più di 2 secondi è considerato un perditempo. [...] L’Argentina è un miracolo. Abbiamo mandato migliaia di calciatori all’estero e continuiamo, dobbiamo produrne. A 18 si gioca in prima squadra, a 20 si è pronti per l’Europa: si creano calciatori per sopravvivere economicamente. [...] L’Argentina ha sempre sofferto. Si nasce col pallone, è la cosa più a buon mercato. E col pallone ricchi e poveri sono uguali. La stessa cosa succede in Brasile. [...] Chabas, tutti scrivono che è vicino a Santa Fè, ma saranno 250 km. un paese piatto in mezzo ai campi di grano. Settemila abitanti, ci si conosce tutti. Il bisnonno Cooper, inglese, si fermò lì per amore d’una creola. Il cognome diventò Cuper. Gli altri rami della famiglia sono tutti italiani: Pistelli, Santarelli, Nardi. Rosa Nardi è la nonna, credo di radici toscane, che mi ha cresciuto e mi ha fatto da padre, madre e nonna. Mia madre Elsa è morta che avevo un anno, come non l’avessi mai vista. Mio padre Hector Jeronimus faceva il camionista, trasportava cereali fino in Patagonia, stava via molto tempo. morto in un incidente stradale, a 600 km da casa. Il mio paese poteva stare in un racconto di Soriano, con due squadre di calcio di categorie remote. La mia era l’Huracan, maglia bianca con profili rossi, numero 2, il mio numero. Solo in nazionale avevo il 3. Mi piaceva salire sul trattore di mio zio, andare a mietere, a seminare. Penso di essere un discreto contadino. Poi ho lavorato in una fabbrica di vestiti e ho avuto un posto in banca, che in un paese come Chabas era praticamente il massimo. E poco dopo è arrivato un invito da Buenos Aires, lontanissima, per giocare gratis nelle giovanili del Ferrocarril. Avevo 17 anni, mia nonna non era molto contenta che andassi via, ma io ci tenevo. Stai attento, mi diceva. [...] A Buenos Aires ho lavato i piatti nei ristoranti, poi mi hanno promosso addetto alle insalate, poi per fortuna mi hanno messo in prima squadra e ho cominciato a guadagnare qualcosa. [...] Una volta in Spagna dissi: le finali, conta vincerle. E Jorge Valdano mi corresse: le finali, conta prima giocarle. Allora, per me conquistare una finale è un merito, perderla è una circostanza. Io me la gioco, me la giocherò sempre per vincere. Poi ognuno è libero di giudicarmi un vincente o un perdente”. [...] Perché ha scelto l’Inter e non il Barcellona? ”Per l’intensità che ho letto in Moratti. stato un incontro caldo, come piace a me. Io sono un caldo, anche in panchina. Moratti mi ha parlato della sua voglia di vincere uno scudetto che non arriva dal 1989. Non mi serviva altro”. [...] molto cattolico? ”Molto no, abbastanza. E tra le cose fondamentali della mia vita metto l’incontro con Madre Teresa di Calcutta, nel 1984. Ero lì con la nazionale, in tournée”. Il calcio è un gioco? ”Io quando esco di casa dico che vado a lavorare. Il calcio è drammatico, come il tango. La donna della tua vita dopo due strofe di canzone ti mette le corna. Lo squadrone dopo un’ora è una schifezza. Il calcio è un dramma con qualche squarcio d’allegria”» (Gianni Mura, ”la Repubblica” 12/12/2001). «Ma insomma che tipo è questo Hector Cuper? Intorno all’argentino è stata creata una coltre di mistero forse studiata a tavolino, forse dovuta veramente al suo carattere (anche questo è un mistero), una coltre di fatto impenetrabile. O meglio, che è stato possibile penetrare in rarissime occasioni. I contatti diretti risultano assai complicati per non dire vietati. Qualcuno ha provato, nei primi tempi, ad avviare dei rapporti normali, quelli cioè che di regola vengono creati tra personaggi dello sport ad alto livello e i media che devono collegarli alla realtà nella quale loro vivono e lavorano. Con lui, una fatica sprecata. [...] il primo tecnico che non ha dato il numero di telefono alla stampa, che non partecipa a trasmissioni tv. Cuper attende la vigilia delle partite per rispondere alle curiosità degli operatori dell’informazione e poi non si sottrae dopo la partita. Ecco, questi due appuntamenti non li diserta mai, in nessun caso. E in tale ambito è possibile porgli qualsiasi domanda, dalla più accomodante alla più scomoda: ogni quesito trova una risposta. A volte esauriente, altre volte no: ma don Hector non manca mai di riguardo al suo interlocutore. Quando proprio intende essere duro se la cava con un ”a questo non rispondo” e di solito è riferito a quiz legati alla scelta degli uomini da mandare in campo, argomento che dribbla assai volentieri. Alla Pinetina ha scelto di avere un rapporto preferenziale con il team manager Bruno Bartolozzi, l’uomo della società che ne ha agevolato l’inserimento nell’ambiente nerazzurro e ne salvaguarda la privacy, ormai un amico vero. Molto stretto anche il rapporto con il preparatore atletico Alfano, ma c’è un buon dialogo anche con gli altri collaboratori dello staff, anche quelli di lunga milizia nerazzurra quali Corrado Verdelli, che da quest’anno gli fa da vice, e Luciano Castellini richiamato proprio da Cuper per la preparazione dei portieri. Il tecnico trascorre molto del suo tempo alla Pinetina, a visionare cassette di avversari da incontrare o a rivedere le partite della sua squadra. Nel lavoro sul campo è molto scrupoloso, gli piace curare i dettagli. E gli piace discuterne (lo fa spessissimo) con il presidente Moratti. Una volta a casa si rifugia in famiglia dove, parole della moglie Chintya, ”segue con attenzione tutto ciò che combinano i nostri figli nella giornata”. Il clan Cuper ha scelto di vivere sulle rive del lago di Como, in un appartamento di trecento metri quadrati con ampia terrazza vista Lario [...]. Tra le pareti domestiche don Hector trascorre il tempo immerso nella lettura (ama storia e filosofia), in qualche partita a scacchi contro il computer o avversari reclutati sui siti internet specializzati (ai quali non svela la sua identità), e non disdegna la musica essendo un eccezionale ballerino. Quando è possibile si concede una vacanza al mare e di solito va a Palma di Maiorca, dove possiede una villetta [...]» (Nicola Cecere, ”La Gazzetta dello Sport” 14/10/2003).